FEDERICO II NEI GIUDIZI DI FRA’ SALIMBENE DE ADAM

FEDERICO II NEI GIUDIZI DI FRA’ SALIMBENE DE ADAM:
una testimonianza della cultura guelfa nel momento cruciale dello scontro fra il Papato ed Impero.
un saggio di Carlo Fornari
 
Chi era fra’ Salimbene de Adam 
Parlare del cronista medievale Salimbene de Adam — più noto forse come fra’ Salimbene da Parma — non è facile. Lo conosciamo solo dalla sua Chronica che, accanto ad essenziali dati biografici, fornisce solo l’immagine di un uomo perspicace, di ottima cultura, ma pur sempre vittima di mille condizionamenti medievali, aggravati dalla veste che portava. 
 
Ognibene — questo era il suo vero nome di battesimo — nacque a Parma, come lui stesso racconta, «...il 9 ottobre 1221, nella festa dei Santi Dionigi e Donnino» (190)[1], da una famiglia borghese benestante. Suo padre Guido era stato crociato in Terra Santa nel 1203 al servizio dell’Imperatore Baldovino, ed aveva ottime entrature negli ambienti imperiali. Al sacro fonte fu levato «…da messer Baliano di Sydone, grande barone di Francia, venuto d’oltremare al seguito dell’imperatore Federico II» (190): un personaggio quindi importante, di quelli che non si scomodano facilmente per cerimonie private.
A diciassette anni, rifiutando le allettanti prospettive mondane che gli venivano garantite dalla posizione sociale, cedette alla chiamata del Signore: «...nel 1238, indizione XI, io entrai nell’Ordine dei frati Minori, il 4 febbraio, nella festa di San Gilberto. Fui accettato la sera della vigilia di Sant’Agata, nella città di Parma, dal Ministro Generale frate Elia...». Dopo Pochi mesi, su sollecitazione « di un vecchio frate ricolmo di giorni e di meriti» mutò il suo nome di battesimo in quello di Salimbene perché, secondo quanto afferma Luca (18, 19) «...nessuno è buono se non Dio» (217).
fra Salimbene
 
Trascorso un breve periodo di noviziato presso la comunità di Fano, lontano dagli affetti familiari e dalle amicizie giovanili, fu subito destinato ad importanti conventi, con possibilità di affinare la vita spirituale e di acquisire conoscenze non comuni, in un secolo in cui l’apprendimento avveniva prevalentemente attraverso l’esperienza. Lo troviamo a Jesi, Lucca, Siena, Pisa, Bologna, Ferrara, Reggio, Borgo San Donnino (l’attuale Fidenza), Faenza, Ravenna, Forlì... con varie puntate a Parma, la città che resterà sempre nel suo cuore. Nel 1247 si recò a Lione, allora sede della Corte pontificia, e nell’occasione visitò i conventi di alcune città francesi. Dopo una vita intensamente vissuta, spesso a diretto contatto con personaggi eccelsi, renderà l’anima a Dio nel 1288 in un luogo ed in circostanze ancora sconosciute.
 
Ad un intenso impegno morale ed apostolico, fra’ Salimbene seppe unire una feconda attività letteraria, di cui ci è giunta solo la Chronica,[2] con ogni probabilità l’opera più importante.
La Chronica è un’opera unica nel suo genere per ampiezza di periodo e completezza di trattazione. Essa rappresenta uno spaccato di 120 anni di vita compresa tra il 1168 ed il 1288,[3] necessaria per chiunque desideri conoscere i principali avvenimenti italiani del periodo; utile soprattutto per valutare la cultura dominante in un momento di rapidi mutamenti, caratterizzato da gravi incoerenze.
 
A questo proposito, è necessario ricordare che Salimbene dimostrò sempre di essere un cattolico osservante convinto e desideroso di promuovere gli interessi della Chiesa, anche a costo di giungere a seri compromessi con la verità. La sua veste di «sacerdote e predicatore» (1148) sarebbe stata ideale per aderire alla corrente dei cosiddetti Minori conventuali, favorevoli ad attenuare i rigori della Regola voluta dal serafico Fondatore e ad inquadrare l’originaria fraternità di eguali in un ordine regolare, aperto alla missione apostolica. Ciò non gli impedì tuttavia di avvicinarsi ai Minori spirituali di opposte convinzioni, ed in questo senso frequentò apertamente gli ambienti Gioachimiti — «...ero infatti gioachimita» (680) — le cui frange intransigenti erano in chiaro odore di eresia[4] e tendevano a considerare Federico II l’Anticristo[5]. Allo stesso tempo, avversò per quanto gli fu possibile le minoranze religiose e condivise — come nel caso dell’eretico Gherardo Segalelli di Parma — le conclusioni dell’Inquisizione più intollerante.
 
Salimbene mostra molta parte delle sue contraddizioni quando si sofferma a parlare proprio di Federico II, cui afferma di aver dedicato un’intera opera che non ci è pervenuta: «…come abbiamo raccontato in un’altra cronaca, nella quale descrivemmo le dodici scelleratezze di Federico» (par. 1631, ribadito ai par. 857 e 2833). Ciò nonostante, egli fa dell’Imperatore svevo il principale protagonista della Chronica, parlandone, direttamente o indirettamente, in oltre duecento paragrafi dei 3245 in cui è divisa nell’edizione bolognese Radio Tau, già richiamata in nota.
 
Questo saggio esamina i particolari del racconto che possano evidenziare il clima culturale entro cui si combatté, nella prima metà del XIII secolo, la lotta tra i Pontefici e l’Imperatore. L’argomento riveste indubbia rilevanza in quanto l’eco della propaganda guelfa contro la dinastia sveva, lungi dall’esaurirsi con la morte di Federico II e dei suoi discendenti diretti, ha influenzato profondamente la storiografia, imponendo oggi agli studiosi di eseguire un’accurata esegesi delle fonti, necessaria per poter giungere ad una più corretta comprensione dei fatti.
 
 
Salimbene, Federico II, i Papi 
La Chronica salimbeniana presenta Federico II nelle primissime pagine, con diretto riferimento all’immagine ed all’opera del Pontefice che gli aveva fatto da tutore: «...Innocenzo III fu un uomo probo e forte. Diceva che gli appartenevano le due spade, e cioè quella spirituale e quella temporale. [...] ...E costituì  imperatore il suo pupillo Federico, che nominò figlio della Chiesa». (114) Ma il lettore non può restare nell’illusione che sia esistita una situazione di idilliaco accordo tra Sacerdotium ed Imperium; anzi, deve conoscere in tutta la sua crudezza il disagio, religioso ed istituzionale, presente in Italia a causa di «…Federico, figlio di Enrico. Questi fece leggi ottime per la libertà della Chiesa e contro gli eretici. Egli superò tutti per ricchezza e gloria, ma abusò per superbia di queste cose. Infatti si comportò da tiranno verso la Chiesa…». (124)
Bene e male; anzi, più male che bene; ma scorrono pochissime pagine, e Federico appare definitivamente investito da un’invettiva violenta, che non lascia dubbi: egli fu «…un uomo pestifero e maledetto, scismatico, eretico ed epicureo, corruttore di tutta la terra, giacché seminò il seme della divisione e della discordia nelle città d’Italia, tanto che dura fino ad oggi, in modo che, secondo le parole del profeta Ezechiele 18, ”i figli possono lamentarsi dei padri. I padri hanno mangiato l’uva acerba e si allegano i denti dei figli”. E anche lo ripete Geremia nell’ultima delle Lamentazioni: “I nostri padri peccarono e poi sono morti, e noi abbiamo portato le loro iniquità”. Pertanto sembra verificata in Federico quella profezia dell’abate Gioacchino [da Fiore], che all’imperatore Enrico suo padre (il quale chiedeva cosa sarebbe diventato nel futuro il figlio) rispose: “Perverso il tuo bambino! Cattivo il tuo figlio ed erede! Oh, Dio! Sconvolgerà il mondo e calpesterà i santi di Dio”[6]. Nello stesso modo si attaglia a Federico quello che il Signore disse di Assur, ossia di Sennacherib, a mezzo di Isaia, 10: “il suo cuore era per l’annientamento e lo sterminio di non poche nazioni”. Tutto questo si compì in Federico, come abbiamo visto coi nostri occhi…»[7]. (178)
 
Evidentemente, il frate intende subito affermare la propria posizione politica e morale. Pur scrivendo, come lui stesso dichiara, nel 1283, quando le lotte fra Papato ed Impero svevo erano ormai un ricordo,  non vuole ingannare il lettore e soprattutto deve creare le premesse per la condanna di Federico II. Pertanto, documenta meglio le affermazioni, con chiaro riferimento all’invasione dei domini pontifici da parte dell’esercito tedesco del 1240 ed alla battaglia della Meloria dell’anno successivo: «…Così il patrimonio di San Pietro fu quasi tutto occupato dal predetto imperatore Federico; e a causa dello stesso imperatore molti prelati, anche cardinali, corsero pericolo tanto in terra quanto in mare». (205)
 
Salimbene è la principale fonte cui risale il dubbio sulla paternità di Federico II, quando afferma che «…Jesi è la città natale dove è nato l’imperatore Federico. E si divulgò la notizia che fosse figlio di un beccaio di Jesi: per il fatto che la donna Costanza imperatrice era molto anziana quando l’imperatore Enrico la sposò, e, come si dice, oltre questo non ebbe altro figlio o figlia. Per il quale motivo, si sparse la voce che, ricevutolo dal padre vero dopo aver simulato la gravidanza, se lo pose sotto le vesti per farlo credere partorito da lei...». (par. 232-233, concetto ripreso al par. 1699)
 
Non è facile interpretare questa notizia, peraltro successivamente smentita da altre fonti ed inoppugnabili considerazioni. Essa può essere stata il mero frutto della fantasia popolare, o una falsa informazione diffusa ad arte per finalità politiche: il desiderio di screditare la dinastia sveva, forse la premessa per poter impugnare la legittimità della successione. Il prosieguo della vicenda parrebbe far propendere per la prima ipotesi, dato che nessuno ha mai dato interessato seguito alla malevola illazione: nemmeno Gregorio IX, che nella nota lettera enciclica Ascendit de mari [8] non avrebbe trascurato un simile succoso argomento, evitando di lanciare generiche quanto ineleganti invettive.
 
Salimbene non si dilunga sui particolari politici, militari ed organizzativi che hanno caratterizzato la Crociata degli Scomunicati. Ad un frate lombardo del ’200 sia pur colto, abituato a viaggiare, la spedizione nel lontano Oriente appariva forse un evento difficilmente penetrabile, non era un fatto di cronaca alla sua portata. Ciò non lo esime però dal condannare senza appello il comportamento di Federico II in Palestina, inutile per certi versi, dannoso per altri: «…Avendolo infatti mandato la Chiesa oltremare per recuperare la Terra Santa, egli fece pace con i Saraceni senza alcun vantaggio per i Cristiani. E per di più fece invocare il nome di Maometto pubblicamente nel tempio dei Signore…». (1631)
 
Nello spesso periodo, era più affine alla sua mentalità la lotta tra Papato ed Impero che si svolgeva più vicino, in territorio italiano, e di già difficile interpretazione. Così, informa sul «…[ il tentativo della Chiesa] di togliergli [a Federico] il Regno delle Due Sicilie…» alludendo chiaramente alla fallita invasione dei territori svevi da parte delle milizie pontificie nel 1237, mentre l’Imperatore si trovava in Palestina. L’intervento è oggi generalmente considerato una delle peggiori e vili iniziative concepite dalla diplomazia pontificia, la prova che per lei la Crociata era solo il pretesto per allontanare l’Imperatore ed allungare facilmente le mani sui suoi possedimenti. Ma anche allora l’episodio doveva apparire censurabile, almeno agli occhi degli osservatori più attenti, capaci di valutazioni autonome; tant’è che Salimbene, fedele al proprio ruolo, si affretta a fornire una propria giustificazione dei fatti, ed afferma che «…questo non avveniva senza sua colpa [di Federico]». Il motivo? Semplice: i peccati commessi proprio in occasione della Crociata. (Sull’argomento par. 1631).
 
Salimbene tratta a lungo la terza e definitiva scomunica di Federico II, decretata nel 1245 a conclusione del concilio di Lione; ma dimostra di non voler inveire oltre modo contro l’Imperatore ormai perdente. Siamo in presenza di osservazioni di parte ma piuttosto pacate, insolitamente oggettive, pur nella significatività dell’evento. «Nell’anno del Signore 1245 [...] Federico II imperatore fu deposto dall’Impero da papa Innocenzo IV, nell’assemblea generale del concilio radunato a Lione, città della Francia. Per la qual causa il detto imperatore esiliò da Parma e da Reggio, senza eccezione, tutti gli amici più stretti del detto papa... ». (699) Ed ancora: «...In quell’anno [1245] papa Innocenzo IV stava a Lione, sul Rodano, con la curia e i cardinali; il quale privò dell’Impero, scomunicò e depose l’imperatore Federico. E il detto imperatore mise al bando il papa e i cardinali e anche i legati». (703)
 
Quando passa a commentare l’inevitabile reazione di Federico, il cronista mostra sulle prime di voler addirittura comprendere il suo dolore, paragonandolo a quello che deriva dalla violazione di un sentimento materno. «Or dunque Federico imperatore, essendo stato deposto dall’Impero dal papa Innocenzo IV nel 1245, era inasprito d’animo, come un’orsa inferocita nel bosco perché le hanno rapito i cuccioli. [...] Ma ascolta quanto dice il sapiente nei Proverbi 17: “Meglio incontrare un’orsa privata dei figli che uno stolto in preda alla follia”». (747) Solo alla fine, ricorda di doversi associare alla condanna emessa per diretta volontà dal Pontefice. Egli conosce bene i tremendi capi d’accusa rivolti all’Imperatore ed il contenuto dell’inelegante pamphlet Eger cui venia, improvvisato in ambiente curiale per giustificare alle potenze cristiane ed ai fedeli i motivi di un provvedimento quanto meno oscuro. Ma rinuncia a mutuare da argomentazioni calunniose, prive di sostanza, preferendo da quel momento ripetere alla noia che Federico II aveva tradito la Chiesa, ingrato dopo essere stato allevato e protetto nel suo seno.
 
In questo senso, fra le tante denunce di cui è disseminata la Chronica, una in particolare rappresenta la sobria versione dell’invettiva con la quale Innocenzo IV, pazzo di furore contro l’Imperatore e la dinastia sveva, incitava ad «estirpare il nome di questo babilonese e quanto di lui possa rimanere, i suoi discendenti, il suo seme…». Recita Salimbene: «Quale fu Federico, che non riconobbe i benefici ricevuti dalla Chiesa, e anzi perseguitò in modo asperrimo e crudele la stessa Chiesa romana. Ma non impunemente, perché, come è detto in Giobbe 24 “Le anime dei feriti gridano, e Dio non permette che si allontani l’invendicato”. Per questo dice il sapiente nei Proverbi 17: “Chi rende male per bene vedrà sempre la sventura nella sua casa”». (748) «…il che si è verificato in Federico, la cui casata è andata completamente distrutta. Per questo dice Giobbe 18: “Il suo ricordo sparisca dalla terra e il suo nome più non si oda sulle piazze. Dio lo getti dalla luce nel buio e lo stermini dal mondo. Non la famiglia, non discendenza avrà nel suo popolo, non superstiti nei luoghi della sua sventura…”». (748)
 
A margine del processo celebrato contro l’imperatore, Salimbene indugia sul ruolo politico che lui stesso ebbe la possibilità di svolgere a Lione, accolto nella ristretta cerchia dei consiglieri pontifici. Ne parla in vari punti tra cui: «...Mentre la mia città era assediata dall’imperatore deposto, uscii da Parma e andai a Lione. E saputolo, il papa mandò a cercarmi subito il giorno della festa di Ognissanti. Dal giorno infatti che io ero partito da Parma fino al giorno che ero arrivato a Lione, il papa non aveva avuto notizie da Parma: né notizie sicure né voci vaghe, ed era in attesa dell’esito della vicenda. E avendo io parlato in camera sua familiarmente con lui da solo a solo, mentre parlando ci dicemmo vicendevolmente molte cose, egli mi assolse di tutti i miei peccati...». (707)
 
Salimbene commenta con un certo affetto, misto a campanilismo, l’assedio portato a Parma dall’esercito imperiale: «Nell’anno dei Signore 1247 il già deposto imperatore Federico perdette Parma, sul finire di giugno. Questa è la mia città, della quale cioè sono oriundo; e l’assediò dal mese di giugno [1247] al mese di febbraio [1248]». (706)
 
Ovviamente non cela le sue preferenze per le forze guelfe poste a difesa della città e sottolinea da par suo le presunte atrocità commesse dalle truppe sveve. «E l’imperatore aveva stabilito di distruggere fin dalle fondamenta la città di Parma e di trasferirla nella città di Vittoria che aveva costruito; ed anche di seminare in segno di perpetuo annientamento il sale su Parma rasa al suolo». (812)
 
Qui è soprattutto nato il mito di Vittoria che la letteratura guelfa, sempre pronta ad ingigantire le iniziative nemiche per far emergere l’eroismo delle comunità fedeli, ha descritto come una città strutturata, dotata di mura di cinta, ville, palazzi, tali da farne la futura capitale dell’Impero nel regno d’Italia. In realtà, essa era un accampamento costruito con capanne di legno e frasche, congeniale alla corte itinerante dove Federico II esercitava le funzioni giurisdizionali e di governo ed ospitava il consueto seguito di sacerdoti, consiglieri, odalische, attori, animali... 
 
Ed ancora: «...l’imperatore ogni mattina arrivava coi suoi e nel letto del fiume Parma faceva tagliare la testa a tre o quattro o anche a più, come gli pareva, dei suoi prigionieri [...] in modo che e i Parmigiani che erano in città vedessero e si demoralizzassero...». (817) L’episodio citato ha tutte le caratteristiche per essere vero; ed appare come una delle tante provocazioni militari, in un secolo che ha visto consumare le più orrende rappresaglie.
 
Simili notizie contribuirono comunque ad accentuare la mobilitazione degli assediati, se la Chronica prosegue: «...Conoscendo questo, le donne di Parma — soprattutto le ricche e nobili e potenti — andarono tutte a pregare la beata vergine che liberasse del tutto la loro città da Federico e dagli altri nemici, a motivo che i Parmigiani tenevano in grande riverenza il nome di lei, come titolare della chiesa matrice»[9]. (812) Con il richiamo alle donne ricche e nobili e potenti, il cronista pare voler conferire all’evento una connotazione elitaria, maturata negli ambienti elevati della città, cari alla cultura borghese del Comune. E poi, è chiaro che le nobildonne dovevano contribuire a costruire la vittoria con le preghiere, mentre alle donne del popolo spettava di impugnare le armi.
Dalla Cronica figurata di Giovanni Villani, la disfatta degli svevi a Parma.
 
La sconfitta di Parma inferse a Federico II un colpo micidiale; di converso, fu un tonico per il morale dei partigiani guelfi e rilanciò le sorti della politica papista. Per celebrare l’avvenimento, Salimbene sfodera le sue più raffinate conoscenze bibliche, che nel caso specifico possiedono un elevato significato simbolico. «Tutti i Parmigiani e tutti i cavalieri e i popolani armati e addestrati per il combattimento, sortirono da Parma, e le donne uscirono con loro; similmente i bambini e le bambine, gli adolescenti e le ragazze, i vecchi con i giovani (Salmi, 148,12); e con grande impeto scacciarono da Vittoria l’imperatore con tutti i suoi cavalieri e fanti». (850)
 
Da esperto cronista, Salimbene indugia con dovizia di particolari sugli episodi spiccioli che seguirono la distruzione di Vittoria. «...I Parmigiani portarono via all’imperatore tutto il suo tesoro, che era ricco assai, e comprendeva oro, argento, pietre preziose, vasi e vestimenti; e si impossessarono [...] anche della corona imperiale, che era di grande peso e valore, tutta d’oro e tempestata di pietre preziose, con molte figure in rilievo lavorate, che sembravano cesellature. Era grande come un’olla. [...] Io l’ho tenuta nelle mie mani, perché si conservava nella sagrestia della cattedrale di Parma...». (852) «È da sapere anche che molti tesori in oro e in argento e pietre preziose rimasero sotterrati dentro orci, loculi e tombe proprio nel posto dove era la città di Vittoria, e sono ivi ancora al giorno d’oggi, ma non se ne conoscono i nascondigli. [...] ...Quando i mercanti comprarono dai parmigiani il tesoro trovato in Vittoria, si adempì quanto si legge nei Proverbi 20: “È robaccia! È robaccia!” dice ogni compratore; ma quando se ne parte si vanta [di aver fatto l’affare]». (858)
 
La sconfitta di Federico II a Parma fu naturalmente accolta con gioia in ambiente minorita. «…Un giorno che stavo ammalato in infermeria […] corsero da me alcuni frati francesi del convento con una lettera, dicendo: ”Abbiamo eccellenti notizie da Parma. I Parmigiani hanno cacciato il fu imperatore Federico dalla sua città di Vittoria, da lui costruita… […] Questa è una copia della lettera che i Parmigiani hanno mandato a Lione dal Papa». (906)
 
 
 
Vizi e virtù di Federico II
Salimbene giudica in modo severo il carattere di Federico che «…non è mai stato amico di nessuno. È facile cominciare un’amicizia, ma per conservarla ci vuole un gran riguardo». (843) «La qual cosa Federico non sapeva fare, a causa della sua meschinità e della sua avarizia; infatti finiva sempre per avvilire tutti i suoi amici e li confondeva e uccideva per arraffarne i denari, i possedimenti, il patrimonio e approvvigionarsene per sé e per i suoi figli. E dunque, nel periodo del bisogno, degli amici ne trovò pochi…». (844)
 
Questi giudizi non sono condivisi dalla storiografia moderna. Data la sua posizione di imperatore medievale, Federico non ebbe né poté avere con alcuno relazioni veramente sincere, disinteressate; ebbe invece parecchi collaboratori, che utilizzò legandoli a sé con le maniere che ritenne di volta in volta più idonee. Le questioni dell’Impero gli imposero spesso di usare il pugno di ferro, con il rischio di avere delle tristi sorprese, come dimostrano le infedeltà sofferte e le repressioni cui fu costretto. Da qui ad affermare che fu malvisto per effetto di una conclamata forma di grettezza il passo è però lungo. Se ci può essere stata il lui la volontà di ampliare il potere dinastico ed arricchire la famiglia, questa non può essere considerata tirchieria, che mal si sposa con i fasti della Corte imperiale, lo sviluppo artistico, la promozione della nascente scienza…: tutti elementi che hanno contribuito a fare di lui un antesignano dei mecenati rinascimentali.
 
frammento dell'Exultet di Salerno, il potere temporale.Quando elenca «dodici disavventure di Federico che fu già imperatore» — in realtà un accostamento di fatti e di comportamenti — Salimbene cita tra le prime «…il fatto che volle mettersi sotto i piedi la Chiesa, al punto che tanto il papa quanto i cardinali diventassero poveri e camminassero a piedi. E questo non lo faceva per zelo del Signore, ma perché non era un buon cattolico. E anche perché […] voleva impossessarsi delle ricchezze e dei tesori della Chiesa…». (1617)
Federico II e la sua corte, Exultet di Salerno, il potere temporale.
 
Sulla reale fede di Federico II molto si è discusso e si continuerà a discutere. Da un uomo razionale, acuto diplomatico ed abile polemista, che ha sempre dimostrato di voler attribuire eguale dignità a tutte le religioni, non è lecito attendersi particolari manifestazioni di solidarietà per il Cattolicesimo romano. Ma non è nemmeno lecito negare ogni forma di sincerità a frasi che lo hanno accomunato ad illuminati uomini del suo tempo e perfino ad illustri prelati: «...sempre fu mia volontà ricondurre gli ecclesiastici e soprattutto l’alto clero a tali condizioni di vita che essi si mantengano nella fede quali furono nella Chiesa primitiva, quando vivevano vita evangelica e imitavano l’umiltà di Gesù».
 
Salimbene si diffonde nell’accusare Federico II di stranezze: in realtà alcune delle ingenue sperimentazioni che hanno lastricato le difficili vie del progresso quando questo si accingeva a diventare scientifico. Ma ciò non gli impedisce di sottolinearne alcune virtù: «E fu un uomo valente qualche volta, quando volle dimostrare le sue buone qualità e cortesie: sollazzevole, allegro, delizioso, industre. Sapeva leggere, scrivere e cantare; sapeva comporre cantilene e canzoni. Fu bell’uomo e ben formato, ma era di statura media…». (1653) «Ancora sapeva parlare molte e svariate lingue». (1655) Significativa appare una frase, che dimostra la presenza di un sentimento che va oltre il semplice, distaccato apprezzamento culturale e professionale: «…e io lo vidi, e una volta gli volli bene». (1654)
 
Ben più severo appare Salimbene quando giudica il comportamento politico dell’Imperatore, che considera senza mezzi termini l’inizio di tutti i mali che tormenteranno l’Italia. «Pertanto, tutte le fazioni e scissioni e divisioni e maledizioni tanto in Toscana quanto in Lombardia, quanto in Romagna, quanto nella marca d’Ancona, quanto nella marca trevigiana, quanto in tutta Italia le provocò Federico, che una volta fu chiamato imperatore. E di conseguenza fu punito molto bene, perché […] fu compiutamente punito nell’anima e nel corpo». (1804) «Per di più, anche i prìncipi del suo regno, che aveva elevato dal nulla e aveva esaltato dalla polvere, […] non gli restarono fedeli e lo tradirono. […] Lo stesso fecero a lui i prìncipi di cui abbiamo fatto menzione sopra. Ma essi pure furono puniti, non perché abbandonarono Federico avendolo conosciuto come un uomo malvagio, ma perché commisero molti peccati». (1805) «Dunque Federico II seminò in Italia queste fazioni, queste divisioni, queste maledizioni che durano ancora; e non possono né finire né terminare a causa della cattiveria degli uomini e per la malvagità del demonio, che si definisce il nemico dell’uomo…». (2831)
 
Si è visto come la morte di Federico II sia stata accolta con soddisfazione in ambiente francescano. Ma appaiono inquietanti alcune affermazioni di Salimbene, che rivestono l’avvenimento di valenze arcane: «Io stesso per molti anni avrei stentato a credere che fosse morto, se non lo avessi sentito con le mie orecchie, dalla bocca stessa di Innocenzo IV […] quando, predicando, disse: “ Quel messere che una volta fu imperatore, avversario nostro e di Dio e nemico della Chiesa, è morto, come con certezza ci è stato comunicato”». E prosegue, mostrando un vissuto degli avvenimenti comprensibile solo immedesimandosi nella mentalità profetica radicata negli ambienti minoriti più spirituali: «...Il sentire questo mi riempì di stupore e a stento potei crederlo. Ero infatti gioachimita e credevo e attendevo e speravo che Federico fosse per fare mali maggiori di quelli che aveva già fatto, per quanto ne avesse già fatti molti…». (680)
 
Ancorché scritta dopo la conclusione degli eventi narrati — Corradino, l’ultimo degli Svevi, era morto proprio nel 1268, l’anno in cui presumibilmente Salimbene iniziava a raccontare — la Chronica, come poche opere medievali, rispecchia la partigianeria tipica della società italiana, presso la quale stenta ad affermarsi il perdono cristiano, meglio un più maturo senso di comprensione.
 
Eppure, alcune considerazioni espresse in modo particolarmente chiaro, spontaneo, dimostrano che il giudizio personale del frate era di critica severa, spesso di contrapposizione verso l’Imperatore, ma anche di apprezzamento per alcune sue evidenti peculiarità, mai di odio; anzi, la propaganda papale non era riuscita a celarne le indubbie virtù.  «…Si deve sapere che Federico non fu crudele come Ezzelino da Romano; ebbe molti detrattori e molti che gli tesero insidie […] volendolo uccidere, specialmente in Puglia e Sicilia e anche in tutto il regno». (2834). Ed ancora: egli «…non fu, in assoluto, il martello dell’orbe, per quanto fu artefice di molti mali…». (1709) «E, per farla corta, se fosse stato veramente cattolico e avesse amato Dio e la Chiesa e la propria anima, avrebbe avuto al mondo pochi uguali a lui nell’autorità». (1655)
 
Questi giudizi non ripropongono certamente la bestia dell’Apocalisse tratteggiata dal Papa Gregorio IX. Eloquente, in proposito, appare la frase del cronista parmense, che, con una punta di ironia, pone sullo stesso piano Papa ed Imperatore, uniti solo nell’intento di voler guerreggiare tra loro: «L’asen da la paré: botta dà, botta riceve, che è come dire: quando recalcitra l’asino scalcia contro la parete, ma una botta dà e una riceve. Un vecchio proverbio che la saggezza popolare attribuiva al papa e all’imperatore: Gregorio IX e Federico II, in quel tempo in discordia tra loro». (640)
 
 
 
L’eredità di Fra’ Salimbene.
Nella storiografia contemporanea si incontrano sovente riflessi i commenti e le notizie di Salimbene. Ovviamente, non si tratta sempre di posizioni adagiate con scarso senso critico su visioni arcaiche dei fatti; più spesso, riemergono posizioni confessionali fuori tempo, dure a morire.
A dimostrazione di quanto sia ancora viva la vecchia cultura della guerra condotta per l’egemonia religiosa, non può sfuggire il comportamento degli storici che, eredi della la vecchia contrapposizione medievale tra Papato ed Impero, continuano a mortificare il comportamento assunto da di Federico II in occasione della cosiddetta Crociata degli Scomunicati. Se non è corretto enfatizzare oltre il lecito i meriti della spedizione, è certo peggio annotare esclusivamente i particolari che ne possono offuscare il vero significato ed il valore.
 
Non c’è prova che l’Imperatore in Palestina abbia manovrato in combutta con il Sultano d’Egitto contro gli interessi della Chiesa, e tanto meno abbia tratto profitti politici ed economici personali. È certo invece che la Crociata federiciana è stata la prima e l’unica a terminare positivamente per le forze cristiane, senza spargimento di sangue innocente. Se è vero che gli accordi di Haifa sono stati la conseguenza di circostanze irripetibili ed hanno dimostrato con il tempo palesi limiti diplomatici e militari, è altrettanto vero che la diplomazia romana e le autorità religiose musulmane, dopo averli osteggiati con ogni mezzo, li hanno completamente rinnegati, rinunciando a qualunque possibile vantaggio.
 
I provvedimenti deliberati dal Concilio di Lione rappresentano l’atto conclusivo della lotta tra Chiesa ed Impero svevo; e come tale devono essere valutati nei risvolti etici, diplomatici, politici.
 
Le questioni morali non hanno mai creato soverchie preoccupazioni alla Chiesa medievale, che ha spesso combattuto fenomeni delicatissimi quali le eresie, i sacrilegi, le disobbedienze ai precetti canonici in genere, dopo averli opportunamente definiti secondo le proprie esigenze. In relazione a ciò, senza toccare gli aspetti religiosi, una valutazione del deliberato lionese può essere operata considerando gli schieramenti presenti al momento, entro e fuori l’assise.
Concilio di Lione
Innocenzo IV in concilio a Lione. 
 
La deposizione e la scomunica di Federico II furono deliberate da Innocenzo IV senza il conforto di una votazione, solo dopo aver condotto colloqui separati con ciascun padre conciliare, visto che evidentemente gli mancava il necessario sostegno spontaneo. Parimenti, il provvedimento fu osteggiato dai regnanti europei che lo giudicavano vessatorio, e temevano di cadere vittime a loro volta delle crescenti ingerenze della Chiesa[10]. Queste considerazioni fanno sì che oggi l’inusitata condanna debba essere considerata un’iniziativa di chiara valenza  politica e non religiosa, una battaglia vinta dal Pontefice secondo le logiche del tempo.
 
Non tutti quanti hanno scritto dell’assedio di Parma hanno avuto cura di recarsi sul teatro delle operazioni per un pur remoto riscontro delle approssimative, spesso faziose cronache coeve. Lo stesso storico tedesco Ernst Wilheim Wies, scrivendo negli anni sessanta del secolo scorso, parla di «…una vera e propria città d’assedio con case in legno e pietra».[11] L’affermazione è palesemente inesatta: subito dopo l’espugnazione la città — costruita in legno con coperture di frasche secondo le tecniche del tempo — scomparirà completamente; ed ancor oggi non è noto il luogo esatto dove era situata, poche miglia da Parma, sulla via Claudia che conduceva a Borgo san Donnino.
 
Se questo può essere considerato un banale refuso storico, ben altro significato riveste la frase che appare nel testo del diploma con cui è stata assegnata al Comune di Parma la medaglia d’oro della Resistenza partigiana: «Fiere delle secolari tradizioni della vittoria sulle orde di Federico II imperatore, le novelle schiere partigiane rinnovavano l’epopea vincendo per la seconda volta i barbari nepoti oppressori delle libere contrade d’Italia». Come un personaggio definito da Dante «ultimo imperadore dei Romani» (Conv. IV, 3, 6) abbia potuto essere declassato con tanta disinvoltura a capo di un’orda barbarica, si può solo giustificare con il clima di sbando politico e morale in cui versava l’Italia nel secondo dopoguerra: uno stato d’animo che non dovrebbe essere trasferito alle più giovani generazioni.
Commento a parte meritano quanti considerano Federico II uno statista miope più che un tiranno, il principale iniziatore della decadenza che dal Basso Medio Evo ha colpito il Meridione l’Italia; ed in ciò trascurando circostanze e protagonisti ben più determinanti e colpevoli di lui.
Franco Cardini, nel suo recente volumetto dedicato a Castel del Monte — il castello federiciano che domina la Murge — pare voglia attribuire a Federico II contemporaneamente tutte le responsabilità che sono state di vari Papi; dei rinnovati baricentri economici e culturali sempre più spostati dal Sud al Nord, dal Mediterraneo all’Europa continentale; e soprattutto dell’immobilismo di alcune importanti civiltà, per le quali il tempo pare essersi fermato ai tempi dell’apogeo islamico. «Quell’Italia meridionale — afferma — che fin dal VI-V secolo a.C. era una delle aree più ricche e prospere di tutto il bacino mediterraneo si ridusse nel giro di circa tre secoli, fra XIII e XVI secolo, a una delle più povere a arretrate: mentre, al contrario, un centronord italico tradizionalmente più povero e meno sviluppato riprese progressivamente a crescere e ad arricchirsi, senza dubbio anche a spese delle risorse meridionali che in parte venivano spietatamente drenate e trasferite a settentrione, in parte svanivano per un processo di regressione e di autoesaurimento determinato dalla perdita di libertà, di autonomia, di capacità inventiva e realizzatrice. […] La politica imperiale dello Stupor mundi, convinto forse che le risorse del suo felice regno e la docilità o la rassegnazione dei suoi sudditi fossero inesauribili, giocò un ruolo di rilievo se non determinante nella nascita della “questione meridionale”: e in ciò le responsabilità dell’imperatore sono immense».
 
L’acme di queste considerazioni giunge nel paragrafo successivo, quando l’illustre medievista, sottacendo otto secoli di dominio culturale della Chiesa romana,  afferma che «…nel secolo scorso il pregiudizio “laicista” e neoghibellino agì nel senso dell’occultamento storico di tali responsabilità. Convinti che si dovesse fare l’Italia […] attraverso la sistematica violenza ai diritti della Chiesa, gli studiosi e gli intellettuali risorgimentali e post risorgimentali si affrettarono a scagionare da ogni possibile colpa quello che — per una serie di malintesi ideologici — era il loro idolo: il sovrano […] che avrebbe voluto creare uno stato “laico” e “moderno” nel pieno medioevo cristiano…».[12]
 
Maggiori doti di equilibrio culturale dimostra Cosimo Damiano Fonseca quando, nella lezione inaugurale dell’Anno Accademico 2003 dell’Università degli Studi di Bari, affronta il fenomeno che ha determinato la migrazione al nord di parecchie attività produttive, «...innescando quel processo economico di tipo coloniale che, in larga misura, sarebbe alla base del problema del Mezzogiorno». Tra le conclusioni, egli afferma che « ...sarebbe grottesco condannare il governo federiciano, che durò solo un trentennio, per una condizione che si sarebbe protratta per oltre sette secoli, giungendo drammaticamente fino a noi». [13]
 
A prescindere dai pochi esempi qui rilevati, è infine utile ricordare che gli Italiani stanno scoprendo solo ora, attraverso inevitabili incoerenze, molti aspetti qualificanti della vita e dell’opera di Federico II di Svevia; mentre gli studiosi d’Oltralpe ne hanno avviato da tempo la conoscenza, ed evitano ora di intrattenersi in oziose considerazioni fuorvianti.
 
Note
[1] Questa, come tutte le citazioni di Salimbene, sono tratte dalla traduzione di Berardo Rossi — Cronaca Radio Tau, Bologna, 1987 — che ci sembra la più fedele allo spirito del cronista francescano. Per agevolare la possibile consultazione, alla fine di ogni citazione è riportato il numero del relativo paragrafo.
 
[2] Al momento della morte di Salimbene, non c’era ancora notizia del manoscritto della Chronica; solo nel 1755 P. Josè Torrubia, francescano osservante, lo rinverrà a Roma, mutila di alcune parti, nella biblioteca dei duchi Conti di Poli, che nel 1787 lo doneranno alla Biblioteca Vaticana. La prima edizione a stampa dell’opera si avrà nel 1857 a Parma, presso la Tipografia Editrice Pietro Fiaccadori; ma si dovrà attendere l’inizio del ’900 per avere le prime edizioni critiche di una certa completezza.
 
[3] Verosimilmente scritta tra il 1281 ed il 1288, la Chronica è composta da due parti: la prima, dal 1168 al 1240 circa, ricostruita sulla base di informazioni e ricerche svolte nelle biblioteche dei conventi; la seconda, dal 1240 alla fine, avvalorata da vive esperienze personali.
 
[4] Gioacchino da Fiore (†1202) fu l’autore della Regola Forense che, approvata da Celestino II nel 1196, è generalmente considerata l’anticipatrice dello spirito francescano per l’accettazione dei più rigidi canoni evangelici. Profeta più che abate, ha lasciato una ricchissima produzione letteraria; alcune sue teorie saranno solennemente condannate nel Concilio del 1215.
 
[5] Gioacchino da Fiore intendeva per l’Anticristo «…non un essere unico, bensì un complesso di tutti gli oppositori vecchi e nuovi della Chiesa; ma codesta interpretazione, così elastica, non bastava più ai suoi successori, che amavano maggiore precisione e determinatezza. E già sappiamo che la maggior parte dei “gioachiti” intendeva Federigo II». F. Tocco, L’eresia nel Medio Evo, Firenze, 1884, rist. Genova 1989, pag. 458.
 
[6] Citazione dallo Pseudo Gioacchino.
 
[7] Come parecchi scrittori religiosi medievali, Salimbene utilizza una forma retorica che richiama sovente le Sacre Scritture, assunte come riferimento per fornire giudizi ed interpretare fatti. I questo senso, egli dimostra di essere un ottimo conoscitore del testi religiosi; e oggi non è sempre facile distinguere le considerazioni che hanno un concreto valore storico da quelle che hanno un puro significato simbolico. Anzi, non di rado si ha la sensazione che utilizzi i richiami biblici per evitare di coinvolgersi in situazioni poco condivisibili. Per dimostrare il fenomeno, qui è stato integralmente riportato il paragrafo; d’ora innanzi, per alleggerire il testo, saranno omessi i riferimenti non essenziali.
 
[8] Si tratta del documento del 21 luglio 1239 nel quale il Pontefice paragona Federico II ad una bestia che sorge dal mare carica di odori blasfemi e lo definisce l’Anticristo.
 
[9] Ancor oggi nello stemma del Comune di Parma figura la scritta «Hostis turbetur quia Parmam Virgo tuetur» che la tradizione vuole composta proprio in occasione dell’assedio tedesco del 1248
 
[10] Lo storico cattolico Klaus Schaltz, nella sua Storia dei Concili – La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, 1999, ricorda espressamente che «...gli stessi inviati dei re di Francia e di Inghilterra intercedettero a suo favore [di Federico II], forse spinti dal timore che a loro potesse accadere anche di peggio, se si trattava in quel modo un imperatore romano».
 
[11] Ernst Wilheim Wies, Federico II, Messia o Anticristo?, edito in Italia a Genova, 1977, pag. 265.
 
[12] Cfr. F. Cardini, Castel del Monte, Bologna, 2000, pagg. 97-98.
 
[13] Gazzetta del Mezzogiorno, Bari, 18 marzo 2003.
 
 
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