Gli Svevi in Dante
Gli Svevi in Dante (vedi nota)
Dante, si sa, è, tra l’altro, un grande poeta di animali, di cui sembra, anticipando di secoli le risorse della moderna etologia, conoscere in profondità natura, indole, atteggiamenti, comportamenti, elevandoli, con la grazia sublimatrice della poesia, alla superiore sfera dei sentimenti dell’uomo.
Si pensi alle tante scene zoologiche del poema, vere finestre aperte sulla natura che, in veste di similitudine, contribuiscono ad animare il paesaggio dell’aldilà, altrimenti smorto e incolore.
Nel repertorio zoologico dantesco, tuttavia, c’è un soggetto che sembra attirare, in particolare, l’attenzione di Dante, al punto che il poeta lo chiama in causa direttamente ben sei volte, per non parlare dei riferimenti indiretti. Si tratta del falco, il maestoso uccello cacciatore che richiama il temps jadis della cavalleria, i nobili svaghi della caccia che, sublimati nei plazer provenzali, dilettavano la civiltà cortese, il mondo delle
…donne e’ cavalier, li affanni e li agi
Che ne ‘nvogliava amore e cortesia (Pg XIV, 109-110);
quel mondo che, agli occhi di Dante, per quasi un secolo, aveva avuto attivi e instancabili protagonisti gli Svevi, e, in particolare, Federico II, lo stupor mundi, l’"ultimo imperatore dei Romani"(CV, IV, iii, 6), inguaribile e impenitente cacciatore, e autorevole redattore di un pregevole De arte venandi cum avibus:
In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga (Pg XVI, 115-17).
Ma ora il falco è disorientato, i suoi voli sono vanificati dalla penuria di preda, ha perso la gioia di vivere:
Come il falcon che è stato assai su l’ale,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere:"Omè tu cali";
ritorna lasso onde si move isnello
per ampie rote, e da lunge si pone
dal suo maestro disdegnoso e fello (If XVII, 127-132).
Il disdegno del falco è, fuor di metafora, lo sdegno del poeta, il suo compianto commosso sul declino irreversibile della giovinezza del mondo, sul tramonto della poesia della vita.
In If XXVII le battaglie di Benevento e Tagliacozzo sono rievocate tra le più irreparabili catastrofi che hanno colpito "la fortunata terra di Puglia":
S’el s’aunasse ancor tutta la gente
Che già, in su la fortunata terra
Di Puglia, fu del suo sangue dolente
Per li Troiani e per la lunga guerra
Che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livio scrive, che non erra,
con quella che sentio di colpi doglie
per contrastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie
a Ceperan, là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato suo membro e qual mozzo
mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo (If XXVII, 7-21).
Il ponte di Ceprano ("a Ceperan là dove fu bugiardo…"), che apriva l’accesso alla provincia campana, lasciato sguarnito dai baroni meridionali, consentì il facile passaggio delle truppe di Carlo d’Angiò, e la conseguente vittoria di Benevento, che vide la morte di Manfredi (1266) e, in sostanza, il definitivo tramonto della potenza degli Staufen. Infatti, due anni dopo, a Tagliacozzo, il sedicenne Corradino, ultimo erede degli Svevi, venne sconfitto da Carlo "sanz’arme", probabilmente per lo stratagemma, suggerito al re angioino dal suo vecchio consigliere Alardo di Valery, di lanciare a sorpresa le truppe di riserva.
Con la battaglia di Benevento, per Dante, si chiude un’epoca, finisce una civiltà, tramonta un mondo, un mito, una cultura, quella cortese-cavalleresca, che era stata magistralmente esaltata da Federico II. Infatti, nel De vulgari eloquentia (I, xii, 4), Dante riconosce a Federico II, tra i tanti altri meriti, quello di aver patrocinato la formazione del primo volgare d’arte in Italia, il siciliano illustre, mutuandone toni, forme, cadenze e contenuti dai cantori d’Alvernia, Limosino, Provenza; ma, soprattutto, il merito di avere lui e il suo benegenitus figlio Manfredi saputo esprimere tutta la nobiltà e grandezza del loro spirito, brutalia dedignantes: al confronto le trombe dei loro successori in Sicilia, Federico d’Aragona e Carlo II d’Angiò, e degli altri grandi della politica, diventano trombette.
Federico e i suoi figli, Manfredi, Enrico ed Enzo, cantarono alla maniera dei trovatori provenzali nel siciliano illustre, creando alla corte sveva un clima di raffinatezza mondana e di splendore cavalleresco che improntò indelebilmente la memoria dei contemporanei e delle generazioni successive per molti anni. Nella corte di Federico Dante trasfigura una civiltà -il background cortese- che avrebbe affascinato per secoli l’immaginario collettivo, quel mondo che Ariosto tornò a risognare nel disincanto della sua poesia (vedi nota 2):
Nadie puede escribir un libro. Para Nessuno può scrivere un libro. Un libro
Que un libro sea verdaderamente, perché esista davvero, è necessaria
se requieren la aurora y el poniente, l’aurora col tramonto, secoli, armi
siglos, armas y el mar que une y separa. E il vasto mare che unisce e divide.
Asì lo pensò Ariosto, que al agrado Così pensava Ariosto, che al piacere
Lento se dio, en el ocio de caminos lento si dette, nell’ozio di vie
De claros màrmoles y negros pinos, di neri pini e di lucenti marmi,
De volver a sonar lo ya sonado. Di tornare a sognare il già sognato.
Non deve meravigliare, perciò, l’idealizzazione di Manfredi nel terzo canto del Purgatorio.
Dante e Virgilio , disorientati per la ripidezza della montagna, si stanno interrogando sul da fare, quando, da un’anonima schiera di anime di penitenti, simile a un gregge di timide e mansuete pecorelle, una voce si volge al poeta:
…"Chiunque
tu se’, così andando, volgi ‘l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque"
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’io mi fui umilmente disdetto
D’averlo visto mai, el disse:"Or vedi";
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.
Poi sorridendo disse: "Io son Manfredi,
nipote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vada a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
Di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia
Di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
Di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
Di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzion, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto;
chè qui per quei di là molto s’avanza" (Pg III, 103-145).
Nell’ordine ortodosso del Purgatorio, la presentazione del re svevo, dello sfortunato eroe di Benevento, è una stonatura, un’evidente incongruenza, e non certo per il ridimensionamento degli effetti della scomunica. L’eterodossia è squisitamente poetica, a cominciare da quel "nipote di Costanza imperadrice", pronunciato con forza, con orgoglio, come per vantare una dignità, un onore, cui tutti gli altri personaggi del Purgatorio sono refrattari, essendo ispirati all’umiltà (si pensi, per fare un solo esempio, alla ricusazione, due canti dopo, in Pg V, 88, di Buonconte: "Io fui di Montefeltro, io son Bonconte").
Dante Alighieri
Manfredi è invece gratificato da una nobiltà che traspira in ogni parte del suo lungo discorso: nella sintassi consolare, architettonica, ricca di subordinate; nel tono di quel "Vedi", pronunciato con incredulità, con risentimento per lo sfregio subito dalla sua regale persona; nella rivendicazione della paternità della "bella" e "buona" Costanza ("genitrice/de l’onor di Cicilia e d’Aragona"); nelle sue fattezze ("biondo era e bello e di gentile aspetto"), che l’iperbato nobilita ulteriormente. E’ probabile che qui Dante, attraverso Manfredi, intenda fare l’apoteosi indiretta del padre, che viene ignorato al punto che il figlio si presenta per successione matrilineare: "Io son Manfredi,/nipote di Costanza imperadrice".
Costanza d’Altavilla, moglie di Enrico VI e madre di Federico II, viene da Dante ricordata in un altro luogo del poema, in quello che, forse, è il più bel canto del Paradiso, il terzo, un vero concentrato di arti, dove musica, poesia, pittura e scienza, sembrano darsi convegno. Questo canto è stato felicemente paragonato a una pala d’altare, a un trittico gotico: nel pannello centrale troneggia la maestà di Piccarda Donati, nelle due formelle laterali, da una parte Dante e Beatrice, dall’altra Piccarda stessa e Costanza d’Altavilla. La presentazione di Costanza suggella la lunga sequenza che vede protagonista Piccarda, con una terzina che, per densità e potenza di perifrasi, non trova, nella Comedìa , altri riscontri:
Quest’è la luce de la gran Costanza
Che del secondo vento di Soave
Generò ‘l terzo e l’ultima possanza (Pd III, 118-20).
Sono questi canti terzi del Purgatorio e del Paradiso i due luoghi della Comedìa in cui Dante fa l’apoteosi della dinastia sveva: Costanza è la "gran Costanza", l’"imperadrice"; Enrico VI è il "secondo vento di Soave"; Federico II è "l’ultima possanza"; Manfredi è il re "biondo, bello e di gentile aspetto".
Né manca all’appello, nella Comedìa, Federico I, ricordato come "buono", in Pg XVIII, 118-20, dall’abate di San Zeno:
Io fui abate in San Zeno a Verona
Sotto l’imperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.
E se è vero che le uniche citazioni dirette di Federico II nel poema sono quelle nude e asettiche di If X, 118-20:
…Qui con più di mille giaccio,
qui dentro è ‘l secondo Federico
e il Cardinale, e degli altri mi taccio:
di If XXIII, 64-66:
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia;
e di Pg XVI, 115-17:
In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
è altrettanto vero che, perifrasticamente, la direzione della memoria dello stupor mundi è in chiara climax ascendente. Il "secondo Federico" di Farinata, già tre canti dopo, diventa, con Pier delle Vigne, il "segnor, che fu d’onor sì degno":
Io son colui che tenni ambo le chiavi
Del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e disserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorioso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e’ polsi.
La meretrice che mai da l’ospizio
Di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ‘nfiammati infiammar sì Augusto,
che ‘ lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d’esto legno
Vi giuro che già mai non ruppi fede
Al mio segnor, che fu d’onor sì degno (If XIII, 58-75).
Poi, come si è visto, in crescendo, l’episodio di Manfredi (apoteosi indiretta di Federico) e quello di Costanza in Pd III, dove Federico è ricordato come "l’ultima possanza".
Resta da risolvere il piccolo grande problema della condanna comminata da Dante a Federico II, apparentemente incompatibile con l’entusiastica esaltazione che lo stesso poeta ne aveva fatto nel Convivio e nel De vulgari eloquentia.
Che il "secondo Federico" sia punito tra coloro "che l’anima col corpo morta fanno" (If X, 15) non è tanto ovvio, se si pensa che il sovrano aveva manifestato il proprio interesse alla riforma della Chiesa, ed era stato attivo persecutore degli eretici. Ma non è tanto ovvio, soprattutto, se si considera che Dante non si lascia condizionare da nessuna ortodossia e da nessuna propaganda, guelfa o ghibellina che sia; non è un caso che nel cielo del Sole, accanto ad Alberto Magno e a Thomàs d’Aquino, e ad altri pilastri di Santa Romana Chiesa, figuri Sigieri di Brabante, il maestro dell’extrème gauche dell’aristotelismo radicale, le cui proposizioni erano state condannate come eretiche nel 1270 dall’arcivescovo di Parigi Tempier:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidiosi veri (Pd X, 136-38).
La condanna di Federico tra gli eretici del sesto cerchio, ribadita dalle nude citazioni dirette (If X, 119; If XXIII, 66; Pg XVI, 117), e dall’uso apotropaico delle perifrasi in If XIII, 75 e in Pd III, 120, è anche suffragata dallo stesso episodio di Manfredi di Pg III, dove, come si è visto, il re svevo viene significativamente presentato per successione matrilineare ("nipote di Costanza imperatrice").
Come chiarire, allora, l’incongruenza?
Semplicemente, ricordando che il Convivio (e il De vulgari eloquentia) nasce all’insegna di un ritorno a posizioni laiche, cavalcantiane, sotto l’egida, insomma, della "donna gentilissima Filosofia" (CV XV,1), con quello che ciò comporta in tema di primato della ragione (CV II, vii, 3) e di amore della sapienza come accesso privilegiato al sommo bene, alla felicità terrena, alla felicità mentale (CV III, xv, 2-5).
Il traviamento di Dante, oggetto della requisitoria di Beatrice in Pg XXXI, non è semplicemente affettivo, ma coinvolge tutte le coordinate della formazione umana, culturali, filosofiche, ideologiche, politiche, morali.
Il salto di qualità segnato, nel giro di pochi anni, dalla Comedìa, è veramente un miracolo, perché propone un Dante totalmente rigenerato, proiettato, senza ombra d’incertezza, verso l’integrazione, quella integrazione che solo la fede può dare.
Il Dante della Comedìa è il nuovo evangelista, che scrive , sotto dettatura dello Spirito Santo ("…I’ mi son un che, quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ ch’e’ ditta dentro vo significando", Pg XXIV, 52-54), "’l poema sacro/ al quale ha posto mano e cielo e terra" (Pd XXV, 1-2).
Non deve destare stupore, perciò, la condanna di Federico. Dante poteva certo ammirare l’uomo, condividere il suo progetto politico (l’universalismo monarchico), magnificare le sue virtù cortesi, considerarlo l’ultimo imperatore dei Romani; ma non poteva giustificare colui che aveva fatto della sua corte una sorta di ecclesia imperialis, fino a farsi identificare nel nuovo Messia, nel mistico agnello dell’Apocalisse, come conferma la presentazione di Pier delle Vigne come colui che tenne "ambo le chiavi/ del cor di Federigo" (If XIII, 58-59), cioè un nuovo San Pietro, un secondo Mosè.
In tale ottica, l’episodio di Manfredi vuol essere un risarcimento umano e poetico della decisa condanna morale di Federico, né più né meno compatibile di quanto lo siano le assoluzioni umane e poetiche dei grandi personaggi dannati dell’Inferno, come Francesca da Rimini, Farinata, Ulisse, Ugolino.
Copyright © Renzo Scarabello
Nota: Inferno, Purgatorio, Paradiso sono abbreviati If, Pg, Pd; il Convivio CV; il De vulgari eloquentia VE.
I passi danteschi sono citati da Dante Alighieri, Commedia, a c. di E. Pasquini e A. Quaglio, Garzanti, Milano, 1987, che riproduce, sostanzialmente, il testo dell’"antica vulgata" stabilito da G. Petrocchi (Mondadori, Milano, 1966-67).
Nota 2: I versi di Borges sono citati da Borges J.L., Ariosto e gli Arabi, in Tutte le opere, I, a c. di D. Porzio, Mondadori ("I Meridiani"), Milano, 1991(VIII ed.), pp. 1230-31.