Oggetti regali

Oggetti regali
 
Alessandro, abate di S. Salvatore di Telese, racconta così dell’incoronazione di Ruggero II:
<<…Fu tale la pompa che parve che tutte le ricchezze e le magnificenze del mondo si fossero riunite a Palermo. Le sale della reggia erano ricoperte di preziose tappezzerie, i pavimenti di tappeti di squisita fattura. Il nuovo re uscì preceduto da tutti i baroni e cavalieri del regno che incedevano a coppie, montati su superbi cavalli dai finimenti d'oro e d'argento; seguivano il monarca, i più autorevoli personaggi anch'essi riccamente vestiti e su cavalli magnificamente bardati. Giunto al  duomo, Ruggero fu consacrato dagli arcivescovi di Benevento, di Capua, di Salerno e di Palermo e ricevette la corona dalle mani del principe di Capua. Alla cerimonia seguirono sontuosi banchetti in cui non fu usato altro vasellame che d'oro e d'argento; gli scalchi, i paggi, i donzelli e perfino i valletti che servivano le mense erano vestiti di tuniche di seta….>>.
Perfino i valletti erano vestiti di seta: questa frase sottolinea più delle altre la ricchezza e lo sfarzo che caratterizzarono l’avvenimento. Perché la seta era il tessuto più prezioso che esistesse.
Cristo incorona Ruggero II re di Sicilia. Mosaico nella chiesa della Martorana a Palermo (metà del XII secolo).
Bisanzio, grande produttrice di sete pregiate, limitava le esportazioni di questo prezioso tessuto, per tenerne alta la richiesta ed i prezzi. Le più pregiate, e su cui più stretto era il limite d’esportazione, erano le sete color porpora, colore simbolo dell’Imperatore d’Oriente.  La tecnica e la decorazione dei tessuti ebbero origine dai tessuti sassanidi, copti e bizantini. Bisanzio era il centro di produzione di numerosi materiali pregiati le cui decorazioni erano caratterizzate soprattutto da soggetti religiosi.. Inizialmente, tra il IV e il VI secolo, i tessuti furono prevalentemente importati da Damasco, Antiochia, Tiro e Sidone; successivamente la città si  sottrasse al monopolio persiano e l’industria tessile ebbe un grande sviluppo. La produzione bizantina si fa risalire al VII secolo quando, secondo la leggenda,  due monaci persiani, che erano riusciti a trafugare dei bachi dalla Cina,  ne avevano fatto dono all'Imperatore Giustiniano.  Dalla Grecia e dal Medio Oriente la seta giunse sino in Italia meridionale, in Sicilia e in Spagna, per mezzo dei traffici marittimi. Il vescovo di Cremona, Liutprando, in missione presso la corte imperiale di Bisanzio nel 968, disse che gli Amalfitani, che avevano botteghe e vere e proprie colonie nei Paesi del Mediterraneo e un po’ in tutta la penisola, avevano diffuso in tutta Italia i più preziosi drappi di porpora (prerogativa della corte imperiale), delle manifatture bizantine.
In seguito iniziò la lavorazione della seta anche in Italia meridionale.
In Calabria sappiamo che divenne intensa la coltivazione del gelso e gli allevamenti di bachi da seta grazie all’apporto dei monaci basiliani. Anche in Sicilia il baco da seta era probabilmente già stato importato dai bizantini. E’ certo che la produzione tessile di vari materiali fosse notevole nel Meridione.  Scrittori arabi del IX sec. affermano che a Messina, Girgenti, Palermo, Piazza ed altri luoghi erano in opera lanifici.  Ibn-‘Awwan riferisce che Ibn- Fassal parla dei metodi praticati dai siciliani per la coltivazione del cotone su terreni aridi; e che gli stessi metodi erano stati adottati poi con successo sulle coste della Spagna.
Nel 975 l’emiro Albumumenin scrive all’emiro siciliano Chbir <<……sul bastimento predato…. si trovavano molti drappi assai più vaghi di quelli che si lavorano in Sicilia, giacché erano travagliati con maggiore esattezza, perché l’oro era più delicatamente filato, più lustro e più colorato di quello che si lavora in Sicilia>> Il che ci indica che in Sicilia  si era già raggiunta una lavorazione di tipo pregiato e tale da essere presa come termine di paragone.
Tra i tesori di Abda (X-XI sec.), figlia del califfo Moezz, vi erano numerosi drappi serici di Sicilia. Nel periodo di dominazione islamica erano attive officine, in particolare quella di Palermo, in cui si producevano tessuti di alta qualità. Infatti, durante il dominio musulmano le stoffe di Palermo facevano bella mostra di sé nei mercati di Alessandria d'Egitto, di Napoli, di Amalfi e di Salerno, fin dal secolo IX. Ed è questa officina, che in arabo era chiamata Tiraz, in greco Ergasterion, in latino Nobiles Officinae, che i Normanni trovarono impiantata e che vollero mantenere in funzione, anzi ne potenziarono in vari modi la produttività e il prestigio. In essa si producevano tessuti, tappeti, oreficeria ed altri oggetti di pregio destinati all’uso della famiglia reale, dei notabili, come doni di ambascerie, ed in parte per l’esportazione  in altri paesi.  Si sa che il laboratorio di Palermo era annesso alla reggia, sebbene sia difficile stabilire oggi quale fosse la sua precisa collocazione nell’ambito dei vari settori che costituivano il complesso del Palazzo Reale.
Palazzo reale, Palermo.
Ottone di Frisinga racconta che nel 1147 la flotta siciliana al comando di Giorgio d'Antiochia approfittò della seconda crociata in Terra Santa per saccheggiare le città di Atene, Tebe, Corinto e la regione dell'Eubea. Furono trafugati ingenti quantitativi di preziosi manufatti e furono imprigionati un gran numero di artigiani della seta e di donne operaie esperte nella bachicoltura che furono deportati in Sicilia. “Ruggero li conduce a Palermo, capitale della Sicilia, e comanda che insegnino l’arte tessile ai suoi; così quell’arte esercitata, fra popoli cristiani, solo dai Greci, cominciò a prodursi anche fra gli indigeni latini”.  Che all’arte fossero ormai addestrati non solo le maestranze arabe ce lo conferma Ibn Gubayr che dice di aver saputo in confidenza da un valletto del Tiraz che le giovani musulmane dell’opificio attraevano all’Islam i giovani compagni di nazione franca.
L’importanza di queste manifatture è costituita, oltre che dalla sterminata produzione, dalla creazione di un repertorio di caratteri grafici e di stili che risentirono di un patrimonio d’immagini confluite dall’Oriente e dal Medio Oriente e che s’intrecciarono con quelle cristiane. Gli stili si fusero, i motivi, come in altri rami dell’arte, risentirono delle culture di altri paesi. Il tramite per l’acquisizione dei motivi ornamentali furono gli stessi tessuti, e tutti gli altri oggetti di lusso importati, dall’avorio, ai metalli, ai rilievi marmorei. La persistenza dei tipi in aree così vaste e l’imitazione da parte dei primi produttori europei, costituisce oggi una delle ragioni della difficoltà di individuazione delle aree geografiche di produzione e dell’incertezza nelle datazioni oscillanti nell’arco di qualche secolo.
Nel periodo dei re normanni, la produzione raggiunse punte di vera eccellenza. Il tessuto non veniva solo operato, ma ornato e ricamato con l’ausilio dell’arte orafa. Dalla Sicilia, la grande tradizione della seteria palermitana si diffuse in molte località dell'Italia meridionale, in modo particolare a Napoli quando Federico II nel 1226 vi trasferì, per un periodo, la propria corte. Un laboratorio tessile era attivo anche nella colonia musulmana che Federico impiantò a Lucera.
Ugo Falcando in Storia della Sicilia, redatta prima del 1190, scriveva: "Né conviene tacere delle nobili officine attigue al Palazzo, ove il filo serico colorito in matasse di vario colore viene poi impiegato nelle molteplici specie del tessere. Vi puoi, infatti, vedere come vengono eseguite con minor perizia e minor costo amita, dimita e trimita; ma anche le examita, che richiedono un maggior impiego di materia prima. Il diarhodon riverbera nel viso il fulgore del fuoco. Il diapiston, di color verdolino, blandisce gli occhi di chi guarda con la sua grata apparenza. Qui si producono gli exarentasmata, resi insigni dalla varietà dei cerchi, che richiedono agli artefici una maggiore industria e un più largo impiego di materiali, e che perciò meritano un maggior prezzo. Vi si vedono ancora molte altre cose di vario colore e ornati di vario genere, in cui l'oro si intesse con la seta, e la varietà di pitture multiformi viene posta in risalto da gemme lucenti; le perle vengono raccolte dentro ciste d'oro, o perforate e connesse con l'esile filo. L'elegante arte nel disporle accresce la bellezza dell'opera dipinta".
Lette queste descrizioni da “mille e una notte”, ci piacerebbe poter vedere alcuni degli oggetti e degli abiti di cui si circondavano i Re siciliani. Tra quelli che ci sono pervenuti, proviamo a mostrare e descrivere alcuni degli oggetti usati dai monarchi normanni e svevi. 
 
Tra i più noti è il mantello di Ruggero II d'Altavilla, Re di Sicilia, attualmente esposto allo Schatzkammer di Vienna. I caratteri cufici, impressi lungo il bordo, ci dicono che il prezioso manufatto di seta rossa fu tessuto nell'opificio di corte dove "dimoravano la perfezione e l'eccellenza". Il mantello di Ruggero II con i cammelli sormontati dai leoni, affrontati specularmente e separati dall’albero della vita, propongono motivi provenienti dalla tradizione medio-orientale importati in linea diretta dagli artigiani arabi che lo produssero.  Le iscrizioni contenute nel mantello indicano l’anno di realizzazione e la manifattura palermitana (anno 528 Hegira islamica, corrispondente al 1133/34 del calendario cristiano). Il leone che sormonta il cammello rappresenterebbe il casato d’Altavilla ed è il simbolo del predominio dei Normanni sugli Arabi in Sicilia. I motivi delle palmette e delle stelle traggono ispirazione dai tessuti serici della Siria, Persia ed Iraq. Questo manto da cerimonia fu indossato anche dai successivi Re normanni.
 
 
Mantello di Ruggero II - foto di Alberto Gentile
Mantello di Ruggero II (più tardi mantello per l’incoronazione degli imperatori svevi). 
Due leoni dilaniano due cammelli. E' conservato a Vienna, presso il  museo Kaiserliche Schatzkammer. - foto di Alberto Gentile
 
L’iscrizione, dedicata a Ruggero, dice: <<Lavoro eseguito nella fiorente officina  reale, con  felicità e  onore, impegno  e perfezione, possanza ed efficienza, gradimento e buona sorte, generosità e sublimità, gloria e bellezza, compimento di desideri e speranze, giorni e notti propizie, senza cessazione né rimozione, con onore e cura, vigilanza e difesa, prosperità e integrità, trionfo e capacità, nella Capitale di Sicilia, l’anno 528>> (trad. Fr. Gabrieli).
E’ realizzato in un tessuto chiamato diaspro. Nel diaspro il fondo è un tessuto semplice, mentre il motivo decorativo è lavorato con una trama pesante costruita su due orditi, in modo che le immagini risultino in rilievo. Le fodere del mantello erano tre, probabilmente cucite l’una sull’altra nel tempo, per l’usura delle precedenti.  La prima e più antica è in seta dorata tipo arazzo, forse dell’inizio del XII secolo, con colori vivaci come il rosso, l’oro, il verde, il blu, il viola, il giallo ocra, il bianco e il nero.  La seconda è una fodera rossa, di manifattura italiana posteriore (XIV secolo); somiglia ad un lampasso[1], i disegni sono in verde, blu e bianco con motivi floreali. La terza parte di fodera è in lampasso di seta verde cangiante, a fasce tono su tono e motivi vegetali.
C’è poi l’Alba di re Guglielmo di una cinquantina di anni più tarda (1181), data oggi confermata dall’analisi di alcuni frammenti di tessuto con scritte in arabo.  I ricami, su seta, con le pietre preziose che guarniscono il petto, il lembo della veste e i bordi delle maniche furono forse fatti aggiungere da Federico II. 
Assieme al manto di Ruggero II, l’alba costituiva uno degli elementi di abbigliamento da cerimonia dell’Imperatore. Del corredo facevano parte anche i guanti e le babbucce, anch’essi decorati con ricami di argento dorato e di perline.
Alba di Guglielmo (Vienna, presso il  museo Kaiserliche Schatzkammer)foto di Alberto Gentile
 
Alba di Guglielmo particolare (Vienna, presso il  museo Kaiserliche Schatzkammerfoto di Alberto Gentile.
 
Guanti da cerimonia (Vienna, presso il  museo Kaiserliche Schatzkammer)
 
 
Altro abito di lusso dell’Imperatore sarebbe una tunica blu con bordo inferiore della veste e polsi riccamente decorati.
 
C’è poi la spada da cerimonia di Federico II. Impugnatura ed elsa di legno rivestito di pergamena d’oro; il fodero è di lino (era una spada da cerimonia, non da combattimento, quindi si è scelto forse un materiale leggero per non impacciare i movimenti del sovrano durante la cerimonia), con applicazioni di placche smaltate, perle e pietre preziose. 
Spada da cerimonia di Federico II (Vienna, presso il  museo Kaiserliche Schatzkammer) - foto di Alberto Gentile
 
Altro elemento che probabilmente faceva parte del corredo da cerimonia era la Croce di Cosenza, la stauroteca che Federico donò per l’inaugurazione della ricostruita Cattedrale della città.  Il reliquiario si pensa facesse parte del gruppo delle oreficerie fatte fare a Palermo per i Re normanni e usate per  il giuramento che avveniva durante l’incoronazione. Il restauro fatto fare a Firenze ne ha comportato l’intero smontaggio ed ha confermato che l’oggetto è tuttora composto di parti originali di evidente fattura siciliana. La stauroteca in origine doveva presentarsi più ricca e lussuosa giacché era ornata per tutto il suo perimetro da un filo di perle e negli obicoli, intorno alle icone, mancano altre decorazioni. Le immagini rappresentate nelle icone seguono la quadricromia del rosso, bianco, giallo e verde.
Croce di Cosenza
 
Il kamelaukion fu rinvenuto nel sarcofago di Costanza quando questo fu ispezionato nel  1491. Fu restaurato, perché dovettero rimuovere  l'intelaiatura interna  di ferro, che serviva a mantenerlo rigido, perché questa si era ossidata  ed aveva rovinato i tessuti. Lo accomodarono con un'imbottitura. La fodera interna originale, fu conservata e viene tuttora studiata per desumerne la forma  iniziale. Il diadema fu posto con gli altri gioielli di Costanza in una cassetta di legno, all'interno del sarcofago. Nel 1781 fu nuovamente aperto il sarcofago per volere dei Borbone. Il contenuto della cassetta non era in buone condizioni e alcuni pezzi dello stesso diadema non furono trovati.  Il regale copricapo fu nuovamente restaurato, cambiandolo di forma.
Ora è una calotta  dagli spicchi simmetrici. Di questa seconda ispezione abbiamo le testimonianze e le relazioni corredate da disegni ed incisioni di Francesco Daniele, del canonico Gregorio e del tenente ingegner Manganaro, che presenziarono all’avvenimento. Secondo le sue osservazioni, il Deér (Josef Deér - 1952) desume che la corona << .. è giunta a noi senza alcun cambiamento>> e denigra le relazioni del Daniele. Lo stesso per il suo seguace Heuser secondo il quale <<… la corona è giunta a noi intatta così come l’imperatore l’affidò al sarcofago in occasione della sepoltura nel 1222>>. Ma i disegni del Daniele coincidono con le incisioni dell’ingegner Manganaro. E, soprattutto, lo studio della fodera originale conferma la forma tramandataci da questi testimoni. Anche i supporti metallici degli archi della calotta confermerebbero l’asimmetria (C. Guastella). Una mia personale osservazione è: perché mai una persona che si prende la briga di disegnare il diadema nei minimi particolari, dovrebbe poi fallare nella simmetria dei suoi contorni?  Sarebbe stato comprensibile se fosse stato il contrario e cioè se per semplicità la forma del camaleuco fosse stata riportata come simmetrica. Anche le pietre furono risistemate a casaccio. Le palmette d'oro -quelle che ora sono solo sul davanti, sul bordo inferiore- erano tante da  circondare l'intero copricapo.
Il camaleuco di Costanza D'Aragona, Palermo tesoro della cattedrale.
 
Corona o camaleuco di Costanza D'Aragona,
(da F. Daniele, "I Regali Sepolcri del Duomo di Palermo riconosciuti ed illustrati", Napoli 1784, ed. cons. 1859).
Le placchette smaltate poste sulla calotta non erano cucite, ma  fissate con dei perni. Ai pendilia mancano alcune catenelle. Si pensa inoltre che, come altre corone, il camaleuco avesse una cerniera nel bordo inferiore (vedere il disegno del Daniele), in modo che, una volta indossata, potesse meglio aderire al capo. Il kamelaukion era un copricapo tipicamente maschile, il che ha posto alcuni interrogativi sul perché fosse nel sarcofago di Costanza d’Aragona. La tesi più comune è che fosse stato indossato dalla Regina di Sicilia per l’incoronazione ad Imperatrice. Nel sarcofago di Costanza sono stati rinvenuti anche altri oggetti d’oro, tra cui ci piace ricordare un anello con rubino perché esso si discosta un po’ dalla fattura tipicamente siciliana. Questo, infatti, risente anche dello stile dei gioielli d’oltralpe. Alle due file di piccole foglie (elemento ricorrente nei lavori germanici) è sovrapposto un piccolo cordone di spirali di filigrana (elemento di oreficeria siciliana). Non sappiamo se questo anello sia stato fatto in Italia o, come altre gioie, in Germania. Sappiamo che orafo della imperiale coppia in Germania era Dieterico Boppard, ma forse al seguito della itinerante corte imperiale erano anche artigiani siciliani.
 
Una tipica tessitura serica era lo sciamito. Tra i più noti oggetti di questo tessuto è un piviale detto manto dei pappagalli per i ricami che rappresentano coppie di questi volatili affrontati, motivo tradizionalmente ricorrente nei manufatti dell’epoca.  Dal bizantino hexámitos, tessuto a sei licci, da héx=sei, e da mítos= filo. Era un drappo di seta, per lo più rosso amaranto, composto da due orditi, uno di fondo e uno di legatura, e da due a quattro trame. Dalla lavorazione risultava un tessuto liscio, senza rovescio, di struttura consistente.
piviale detto manto dei pappagalli
Era impiegato per abiti sontuosi o solenni o per drappi di una certa consistenza, quali copriletto, o paliotti (drappi per ornare altari). Il manto dei pappagalli è un piviale custodito a Vicenza. Nel tempo ha subito dei rimaneggiamenti tra cui una riduzione delle dimensioni, forse per eliminare parti consunte.
L’esame del piviale fa pensare ad una fattura meridionale. Giunto nel Veneto a seguito dei contatti culturali e politici dei territori ghibellini con il Regno di Sicilia, non è escluso che il piviale fosse un dono fatto proprio dallo stesso Federico[2]. 
Lo stesso motivo di uccelli e cervi affrontati è nel ricamo che impreziosisce il meraviglioso drappo che avvolgeva la salma di Enrico VI.
Un lampasso di fattura siciliana o siriana.
Tra gli oggetti di Federico II ci piace menzionare questo cofanetto egiziano d’avorio per la particolarità dell’intarsio che forma degli ottagoni, figura geometrica “cara” all’Imperatore.
 
Cofanetto egiziano d’avorio
 
Oggetti di lusso erano anche i codici miniati,  traduzioni di testi classici greci,  bibbie,  evangelari.
Tra questi il Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli.
Sia le descrizioni, sia le raffigurazioni fanno immaginare che gli autori del testo e delle miniature abbiano dimorato a Palermo e che   ben conoscessero la città. Ma lo stile delle miniature  riporta alla miniatura monastica campana, in particolare alla tradizione di Montecassino. Ciò evidenzia  l’inizio dell’apertura dell’arte siciliana verso gli altri stili del regno. Un  libro di Federico era anche quello a lui dedicato da Michele Scoto, La storia degli animali di Aristotele, tradotto dall’arabo al latino dallo Scoto quando ancora era a Toledo e terminato a Palermo. A Federico è rivolta la dedica all’inizio del libro (parole scritte in rosso nella pergamena).
De animalibus
        
Altro libro voluto da Federico è il codice di mascalcia, primo trattato occidentale che si conosca di veterinaria. Fu scritto da Giordano Ruffo di Calabria, con la collaborazione dello stesso Federico. Ebbe grande diffusione e fu tradotto in varie lingue. La più nota, e forse la prima tra le traduzioni, è quella  in siciliano per renderla più comprensibile agli operatori degli allevamenti.
Salterio di Elisabetta d’Inghilterra
 
Federico commissionò forse anche il Salterio che donò per le nozze ad Isabella d’Inghilterra. Per le sue caratteristiche stilistiche, il Salterio pare sia uscito dallo scriptorium di Gerusalemme, ma le miniature sono da attribuirsi  ad un autore siciliano attivo presso quello scriptorium. È anche vero che, secondo alcuni studiosi, dopo il 1187 miniatori di Gerusalemme si trasferirono in Sicilia ove erano attivi gli scriptoria di Messina, Palermo.
Importante è la Bibbia di Manfredi scritta dall’amanuense Johensis, la cui firma ritroviamo in altri codici. Questa Bibbia mostra influssi francesi ed inglesi. Il che non è strano se si pensa ai contatti politici della Sicilia con l’Inghilterra[3]. Lo stesso Manfredi studiò a Parigi e probabilmente al suo ritorno portò in patria manoscritti d’oltralpe. Il confronto di questa Bibbia con altre della stessa epoca fa parlare di Bibbie manfrediane, quali una custodita a Parigi,  la Bibbia di San Daniele, quella di Bourgesed, quella della biblioteca Bodeleienne di Oxford, ed altre.  Si pensa che siano uscite tutte da una bottega di Napoli che lavorava sia per gli ambienti di corte, sia per l’ambito universitario.
 
 
Bibbia di Manfredi
 
Bibbia di Manfredi
 
Bibbia di Manfredi
 
 
Aggiungiamo l’immagine di un altro oggetto che cinse il capo di Federico II, quando venne incoronato re dei romani ad Aquisgrana nel 1215 e molto probabilmente fu usata anche a Roma nel 1220 quando fu consacrato Imperatore: la corona del Sacro Romano Impero d’Occidente.
Questa corona fu fatta realizzare in Italia Settentrionale nel 962 o 967 da Ottone il Grande. Successivamente subì varie modifiche. È custodita presso il  museo Kaiserliche Schatzkammer di Vienna. Questa corona non era di proprietà privata di Federico, tuttavia aveva il diritto di disporne in quanto re dei romani ed imperatore, facendo essa parte del tesoro del Sacro Romano Impero.
Corona d'oro con croce d'oro del Sacro Romano Impero, (Vienna, presso il  museo Kaiserliche Schatzkammer). foto di Alberto Gentile
 
 
Bibliografia:
 
Storia dell’Arte; Electa.
 
Francesco Daniele; I Reali Sepolcri del Duomo di Palermo riconosciuti e illustrati; Napoli, Stamperia Reale 1784.
 
Cavallo; L’uomo bizantino; Edizioni Laterza.
 
Federico e la Sicilia dalla terra alla corona; Arnaldo Lombardi Editore.
 
Enciclopedia “Federico II”, Treccani.
 
Giuseppe Gargano; Clamide e broccato abbigliamento e stoffe in Amalfi medievale; De Luca Salerno.
 
[1] Lampasso: Stoffa di lusso, dalla superficie morbida e lucente, che, a differenza del damasco, ammette la policromia.
 
[2]  La leggenda racconta che quel piviale fosse stato donato da Luigi IX di Francia a Bartolomeo da Braganze che lo portò a Vicenza quando divenne arcivescovo di questa città. Ma non esiste alcuna corrispondenza storica alla leggenda.
 
[3] Si pensi anche semplicemente al fatto che ogni regina conduceva con sé un seguito di dignitari ed artigiani della propria terra di provenienza. La stessa Isabella d’Inghilterra volle presso di sé anche il suo orafo inglese.
 
Copyright © Astrid Filagieri