Federico II e Foggia annotazioni
Annotazioni su Foggia fridericiana. Le testimonianze di alcune fonti storiche
di Pasquale Corsi*
Nel corso di questi ultimi decenni gli studi su Federico II di Svevia hanno conosciuto uno sviluppo eccezionale, in virtù di un complesso riesame della sua personalità, del suo progetto politico e dell’impatto della sua azione nel mondo che gli fu contemporaneo; altrettanta attenzione è stata riservata all’eredità da lui lasciata o che a lui generalmente viene fatta risalire. Ovviamente non è mia intenzione né questo è il momento opportuno di proporre un bilancio dei risultati di queste numerose indagini, che riservano sempre o la scoperta di nuovi aspetti o almeno una migliore conoscenza di questo straordinario personaggio storico e dell’età che fu sua. Debbo tuttavia avvertire, in via preliminare, che pur limitando l’ottica della ricerca nell’ambito circoscritto di un argomento quale “Federico II e Foggia”, quindi non su prospettive di carattere generale, sono stato costretto in questa circostanza (per ovvi motivi di opportunità) ad escludere le risultanze di molte fonti dell’epoca. Mi permetto quindi di rinviare ad alcune mie pubblicazioni, che integrano ampiamente il nostro attuale discorso; in particolare, segnalo (per chi fosse interessato) una trattazione intitolata Foggia dalle origini all’epoca di Federico II, che costituisce il capitolo II, pp. 37-145, di un mio libro del 2012: Popolamento e sviluppo urbano nella Puglia medievale, di cui però ignoro quale sia l’odierna reperibilità nelle librerie. Aggiungo tuttavia che ho la speranza di poter pubblicare a breve una monografia su Federico II e la Capitanata, in cui (accanto alle risultanze già evidenziate) saranno inseriti i risultati di altre mie più recenti ricerche, attualmente sparse in Atti di Convegni non sempre di facile reperimento o tuttora in corso di svolgimento.
Per limitarci al tema di questo mio intervento, è inevitabile far riferimento al territorio in cui si trova la città di Foggia e che (a partire dall’epoca della conquista normanna) prende il nome di Capitanata, per effetto delle realizzazioni (soprattutto dal punto di vista della fondazione di numerosi insediamenti demici) che il catepano bizantino Basilio Boioannes riuscì a compiere, in funzione antilongobarda, agli inizi del secolo XI in questa parte settentrionale della Puglia, altrimenti nota come Daunia. I nuovi assetti politici determinati dal dominio dei Normanni non furono di ostacolo alla prosecuzione dello sviluppo economico e demografico della Capitanata. Questa fase, sostanzialmente positiva, interessò anche il Gargano e continuò durante il secolo XII, tanto da influire notevolmente nella trasformazione dell’habitat, ma non sino al punto da cambiare radicalmente l’ecosistema, quale si era venuto formando nel corso dell’alto medioevo. Permanevano, ad ogni modo, ampi spazi incolti ed un equilibrio demografico assai debole, sul quale anche interventi di modesta portata potevano incidere profondamente.
Proprio queste caratteristiche di fondo, probabilmente, permisero a Federico II di lasciare una vasta traccia del suo operato nel contesto territoriale della Capitanata. È noto del resto quanto lo Svevo amasse il soggiorno in queste zone, di sicuro per la loro precipua amoenitas, ma soprattutto per la possibilità di trovare quegli spazi e quelle particolari condizioni ambientali, che meglio si adattavano ai suoi diletti venatori. Non si deve tuttavia sottovalutare l’importanza di una molteplicità di altre motivazioni, che suggerivano all’imperatore la scelta dei propri luoghi di soggiorno e dei tempi di permanenza. Come si riscontra in genere nello studio degli itinerari dei sovrani medievali, che rivelano aspetti molto significativi dei disegni politici da loro concepiti ed attuati, anche gli spostamenti della corte itinerante di Federico II evidenziano una serie di scelte ben precise. Sembra che egli sia venuto per la prima volta in Capitanata nel febbraio del 1221, quando appunto si registra la sua presenza a Foggia. Sulla base di uno spoglio sommario delle fonti, che non ha quindi alcuna pretesa di esaustività, nel corso dei trent’anni successivi, sino quindi al fatale dicembre 1250, risulterebbe un massimo di 35 soggiorni a Foggia, di varia durata. A notevole distanza si collocano altre località di Capitanata (tra quelle almeno sicuramente identificate), come in un rapido elenco Apricena, Civitate, San Chirico, San Lorenzo in Carmignano, Lucera, Troia, Tressanti, Ordona, Corneto e Salpi.
Sia all’interno di questi semplici dati sia in relazione agli eventi che vi ebbero luogo, spicca senza dubbio la crescente importanza di Foggia, che viene ad assumere quasi il ruolo di capitale del regno di Sicilia. Non è certo un caso che Federico vi soggiorni nella ricorrenza di grandi festività religiose o di solenni manifestazioni della sua augusta sovranità. L’8 aprile 1240, ad esempio, festa della domenica delle Palme, venne convocata a Foggia una solenne assemblea (un “parlamento generale”) allo scopo di promulgare nuove costituzioni per il Regno. A Foggia egli volle che gli venisse costruito un palazzo residenziale, a partire dal 1223, come attesta l’epigrafe annessa al maestoso portale per fortuna superstite. L’incarico della costruzione fu affidato al protomagister Bartolomeo per volontà dell’imperatore, cui si riferisce l’intento di fare della città di Foggia una sede degna del suo rango (Hoc fieri iussit Fredericus Caesar ut urbs sit Fogia regalis sedes inclita imperialis).
Al sontuoso palazzo di Foggia si aggiunsero le residenze per i suoi svaghi, le domus solaciorum, tra cui negli immediati dintorni la domus del Pantano, presso San Lorenzo in Carmignano; quest’ultima, adorna di giardini e giochi d’acqua, era dotata di un vivarium e di un parco recintato per la caccia. Queste residenze attivarono certamente una serie di importanti cantieri e stimolarono, per soddisfare i bisogni e gli splendori della corte, l’operosità di artisti e di artigiani altamente qualificati. Il tramonto dell’epoca sveva e il progressivo spostamento degli interessi politici provocarono tuttavia l’abbandono di queste residenze, cui si aggiunsero i danni occasionalmente provocati dagli eventi bellici. Ad esempio, nel 1254 Manfredi decise di attaccare l’esercito pontificio asserragliato a Foggia. In quella circostanza il palazzo imperiale servì da rifugio per molti sbandati (se verterunt in fugam versus palatium regium civitatis ipsius), tra i quali vi erano numerosi ecclesiastici. Se da queste notizie sembra possibile ricavare qualche indizio riguardo all’ampiezza dell’edificio, capace di accogliere una massa considerevole di fuggiaschi, si possono analogamente ipotizzare danneggiamenti e saccheggi. Ancora più certe, in quanto esplicitamente attestate, sono le distruzioni arrecate ad una parte delle «belle dimore»» fatte costruire da Federico II al Pantano di San Lorenzo in Carmignano ( destruentes etiam domos , quas imperator Fredericus construi fecerat in riveira S. Laurentii valde pulchras ). Con i legnami così recuperati, le truppe pontificie tentarono infatti di rafforzare le difese di Foggia, mediante palizzate e steccati, contro i temuti attacchi, prima ricordati, delle truppe saracene di Manfredi.
All’origine di tutto ciò, occorre non dico puntualizzare, ma almeno tentare di fornire qualche cenno circa le motivazioni politiche generali che possono probabilmente essere alla base della scelta di Federico II riguardo a Foggia ed alla Capitanata. Nell’essenziale e senza soffermarci sui dettagli, agli studiosi è sembrata operante nella scelta di Foggia e contemporaneamente della Capitanata una sorta di rivalutazione dei territori “continentali” del Regno, in parte già riconoscibile all’epoca di Enrico VI. Si è parlato, per così dire, di un «modello bipolare» nelle strutture amministrative dello Stato, un modello che Federico avrebbe recepito, se non addirittura perfezionato, in rapporto alla suddivisione della parte continentaledel Regno in «Capitanerie». Quella a nord di Roseto Capo Spulico e che raggiungeva verso nord il fiume Tronto era poi strutturata su due poli: l’uno incentrato su Napoli e l’altro su Foggia e la Capitanata nel suo complesso. Lasciando ora da parte le questioni concernenti la città di Napoli, che hanno una loro specifica caratterizzazione, il suddetto bipolarismo “continentale” potrebbe essere inteso come l’effetto di una ben determinata visione politica. Federico II avrebbe inteso in tal modo spostare il centro direzionale dello Stato in zone strategicamente meglio collocate, donde i confini dei territori pontifici e le città della pianura padana potevano essere controllati e raggiunti più facilmente che dalla lontana Palermo, la capitale degli avi normanni.
Al di là comunque dei risultati di questo impegno esegetico, resta incontrovertibile la predilezione di Federico II per la Puglia e la Capitanata in particolare. Ciò viene generalmente collegato a quel celebre appellativo (che è rimasto, più di altri, in auge nella tradizione storiografica e nell’immaginario comune) di puer Apuliae; egli stesso amava definirsi, più semplicemente, unus ex Apulia. È appena il caso di ricordare che il significato di questo appellativo è stato esaminato da parecchi studiosi nelle sue varie potenzialità ed estensioni. Da un lato, il primo termine richiama evidentemente il concetto della giovinezza dell’imperatore, quale apparve ai suoi sudditi tedeschi nel corso della sua avventurosa impresa contro Ottone IV; vi era insita però anche l’idea di una “giovinezza” fuori del tempo, espressione e simbolo di intelligenza, di inesausta curiosità intellettuale e di instancabilità nell’azione. Il secondo termine rievoca sì l’Apulia, ma sostanzialmente in riferimento all’intero Regno, col quale veniva comunemente a identificarsi l’ambito geografico definito dall’appellativo. Sta di fatto, comunque, che l’appellativo di puer Apuliae, nel suo significato più circoscritto (limitato cioè solo alla parte settentrionale della Puglia), ben si addice a Federico II, che amò soggiornare in quella “magna Capitana”, cui faceva cenno re Enzio prigioniero nel suo nostalgico canto. Nel suo palazzo di Foggia, nei numerosi castelli e loca solaciorum disseminati in ogni angolo del territorio, tra i suoi fedeli saraceni di Lucera, Federico trascorse probabilmente la parte migliore della sua vita e lasciò indelebile il ricordo della sua presenza imperiale.
A tal proposito, è forse opportuno prendere in considerazione una ipotesi abbastanza suggestiva, che cioè Federico avrebbe progettato di ricostruire in Capitanata il paesaggio e le strutture che aveva conosciuto in Sicilia, a Palermo e nei suoi dintorni. Il territorio circostante Foggia sarebbe stato perciò piegato alle esigenze proprie del soggiorno di un grande sovrano, con le sue riserve di caccia, i palazzi e le residenze di campagna; tutto il resto inoltre doveva servire di supporto e per le esigenze logistiche, sotto il controllo e la diretta amministrazione dei funzionari imperiali. Il modello era evidentemente quello normanno, con il Palazzo regio di Palermo ed una corona di residenze suburbane, come quelle celebri della Favara, della Cuba e della Zisa, adorne di mosaici e giochi d’acqua delle fontane. Per quanto riguarda la Capitanata, le testimonianze circa il tipo di interventi effettuati da Federico II sono proporzionalmente abbastanza esigue, ma soprattutto quasi sempre ambigue rispetto alle loro finalità. Di sicuro a partire dagli anni Venti, dopo il suo ritorno dalla Germania, ma ancora più sistematicamente dagli anni Trenta si procede alla formazione ed al rafforzamento di nuovi assetti territoriali, mediante la creazione o il restauro di una cospicua rete castellare, che cingeva dal Gargano all’Appennino la pianura del Tavoliere e che si integrava, in linea con il concetto strategico di difesa “passiva”, con le cinte murarie delle città. All’imponenza di questo sistema castellare, che inevitabilmente venne a pesare sulla popolazione non solo per costruirlo, ma ancor più per mantenerlo costantemente in perfetta efficienza, corrispondeva la complessità della rete delle domus solaciorum. La questione dell’impatto sul territorio e della distribuzione della popolazione in seguito alle decisioni dell’imperatore è certamente importante, ma basta in questa sede averla richiamata.
Le scelte compiute da Federico II, circa la sistemazione complessiva del territorio della Capitanata, ebbero delle conseguenze notevoli anche sugli equilibri urbani. Per quanto riguarda Foggia, è evidente che le fortune di questa città, soprattutto dal punto di vista politico-istituzionale, raggiunsero il culmine proprio durante il regno di Federico. Nonostante ciò, l’orgoglioso spirito civico dei suoi abitanti, che a lungo aveva alimentato e continuò ad alimentare una tenace contrapposizione al predominio religioso di Troia (capoluogo della omonima diocesi, in cui era compresa anche Foggia), mal sopportava gli inevitabili pesi derivanti dalla presenza della corte imperiale. Ciò può spiegare, ad esempio, la decisione di Foggia di aderire nel 1228 alla fazione dei ribelli filopontifici, durante l’assenza dell’imperatore impegnato nella crociata in Terrasanta. Al suo ritorno, nel giugno del 1229, Federico riuscì a riportare rapidamente l’ordine in tutta la Puglia, mettendo in fuga l’esercito degli invasori. Abbandonate al loro destino, le città ribelli soggiacquero alla punizione loro inflitta dall’imperatore. Sembra infatti che Federico abbia fatto colmare i fossati difensivi ed abbattere le mura di Foggia, di Casalenovum e di San Severo. Non è da escludere che nella repressione siano state coinvolte anche altre città della Capitanata, ma certamente il caso più eclatante è quello di Foggia, investita nel maggio del 1230 dalle truppe imperiali e che rimase per molto tempo priva di mura, proprio quelle mura che erano state in precedenza riedificate o rinforzate dall’imperatore. Sarebbe stata questa l’occasione di quel componimento poetico indirizzato, secondo le leggende locali, dall’imperatore alla città, per rinfacciarne il tradimento. Il testo in questione comincia con il ben noto emistichio: «Fogia, cur me fugis?», e continua poco appresso: «Non bene noscebam tuos, mala vipera, mores». In effetti, non pare che gli abitanti abbiano opposto resistenza all’abbattimento delle mura ed allo spianamento dei fossati, una situazione che sembra sia durata sino alla fine del dominio svevo, come attestano alcuni episodi degli anni Cinquanta del secolo XIII, in riferimento a Manfredi. Naturalmente l’opera di punizione dei ribelli non si fermò alle mura cittadine, del resto un simbolo poco gradito delle autonomie locali, ma si estese con ogni probabilità a coloro che si erano maggiormente esposti nel compiere attività ostili all’imperatore. A nulla valsero gli appelli alla clemenza, indirizzati da papa Gregorio IX a Federico dopo la stipula del trattato di pace di Ceprano del 28 agosto 1230.
Di un’altra ribellione degli abitanti di Foggia ci è giunta notizia verso gli anni 1234-1235, quando la città fu condannata a pagare la gravosa ammenda di ben 3.600 once d’oro. Di conseguenza è possibile ritenere che di questi e di eventuali altri meno eclatanti avvenimenti, con le relative repressioni più o meno severe, siano da riconoscere le tracce nei lunghi elenchi di case e terre passate in proprietà della Curia imperiale e trascritte dettagliatamente in quella celebre fonte che è il Quaternus de excadenciis et revocatis Capitinatae, compilato verso la fine del regno di Federico II. Ne traggo solo alcuni esempi, tra quelli più significativi per la storia di Foggia e la vita quotidiana dei suoi abitanti in quel periodo. Il Quaternus, com’è noto, fu compilato sulla base di una inchiesta condotta, località per località, da due funzionari a ciò incaricati, i quali a loro volta convocavano ad ogni tappa un certo numero di persone ben informate e fededegne in qualità di giurati, i cui nomi venivano trascritti.
Nel caso di Foggia, si può cominciare con il rilevare il cospicuo numero dei giurati (ben trentatrè), che dovevano attestare la consistenza e i redditi dei beni avocati dalla Curia imperiale. Tra loro sono elencati cinque giudici, due notai, un magister iuratus, due che erano figli di giudici, e quattro magistri, cioè artigiani, tra i quali un calzolaio e forse un fabbricante di pentole. Tra i beni immobili urbani e semiurbani confiscati si annoverano ovviamente numerose case, alcune delle quali munite di dipendenze. A distinguerle tra loro, il modo più semplice è stato quello di qualificarle come domus magna o come domus parva, ove i parametri di ampiezza o ristrettezza debbono evidentemente essere commisurati ad uno standard medio non precisato. Alcune di queste domus sono tra loro coniunctae, oggi si direbbe “a schiera”; altre sono evidentemente di struttura più complessa. Da questo punto di vista si trova spesso indicato il casalinum, da intendere talvolta come una striscia di terreno e talvolta come una dipendenza di modesto livello. In una occasione, si arriva a specificare che la casa aveva uno spiazzo nella parte anteriore ed un paio di “casalini” in quella retrostante, ove c’erano alberi di fico (cum examplo ante ipsam domum et parum casalini vacui post ipsam cum arboribus columbrorum ). Sono poi elencati in gran numero i casalina autonomi, cioè non menzionati come dipendenze di una domus e spesso indicati come vacua; potevano pertanto essere agevolmente utilizzati come suoli edificabili. Vi erano anche delle domus semidirute, perché con i soli muri e prive di tetto ed altre fuori della cerchia urbana (extra Fogiam). Sono poi elencati in gran numero i casalina autonomi, cioè non menzionati come dipendenze di una domus e spesso indicati come vacua; potevano pertanto essere agevolmente utilizzati come suoli edificabili.
Tra i beni confiscati agli Ospedalieri, a colpo d’occhio risulta molto elevato il numero dei casalina siti in suburbio Sancti Petri, mentre quelli dei Templari evidenziano una accentuata concentrazione in suburbio Templi, che prende appunto il nome dalla loro presenza. Sono inoltre menzionate le chiese del S. Sepolcro, evidentemente collegata all’omonimo Ordine, e quella di S. Martino; varie proprietà di Montecassino (tra cui una domus), di S. Lorenzo di Aversa (una domus e alcuni feuda), del monastero di Montesacro sul Gargano (un terreno seminativo), di S. Nicola (un terreno seminativo) e, particolarmente numerose, quelle confiscate all’Ordine Teutonico.
Meno frequenti risultano altre varianti nelle caratteristiche delle dipendenze delle abitazioni. Abbiamo comunque la citazione di un forno (furnus) con le relative attrezzature (cum apparatu suo) ; di un forno, con l’attrezzatura ed un cortile (cum furno, curte et apparatu furni), con la specificazione talvolta che il cortile serviva per la paglia, usata evidentemente quale combustibile (cum furno, apparatu suo et curte pro palea) ; di un mulino (centimulum ); di un frantoio (cum trappeto ); di un frantoio con la relativa attrezzatura (cum apparatu eiusdem trappeti). Si trovano però locali di questo genere, che non sono segnalati in esplicita connessione con una domus: questo sembra il caso di un forno, detto di Roberto Pollutro; di un frantoio, detto “di S. Martino”; di una cantina non altrimenti qualificata (cellarium). Non manca l’attestazione di un palatium (palatium unum in platea Fogie), che risulta prospiciente la via principale della città, menzionata altrove anche come platea magna; di questo palatium mi sembra molto problematica, a causa del contesto in cui è elencato, l’identificazione con la reggia federiciana. Decisamente più eccezionale appare la segnalazione di uno scantinato adibito a prigione (cum cripta, in qua custodiuntur captivi).
Dal punto di vista della topografia cittadina, registriamo (come spesso si è già visto) innanzitutto la citazione dei sobborghi (suburbia) o forse anche quartieri di Maniaporci, S. Andrea, S. Pietro, Bassano, del Tempio e di S. Tommaso, indicato quest’ultimo con l’espressione “in parrochia Sancti Thome”. Il suburbium di S. Pietro comprendeva anche un settore denominato Castellorum in genere identificato con la zona del palazzo federiciano; in questo contesto è citata anche la chiesa di S. Pietro, di cui è stata ipotizzata una ubicazione agli inizi dell’attuale via Castiglione, nei pressi della chiesa di S. Rocco. Ilsuburbium Maniaporci comprendeva la chiesa di S. Elena e confinava con il fossato diruto, di cui sopra. Questa peculiarità di Maniaporci è ripetuta in riferimento ad un casalinum, sito “iuxta fossatum dirutum”. La medesima espressione caratterizza il suburbium di S. Andrea, sicchè appare accettabile l’ipotesi di una sua contiguità al precedente.
A proposito della identificazione dei sobborghi e dello sviluppo cittadino intorno al nucleo originario, preferisco rinviare a coloro che se ne sono espressamente occupati. Credo infatti che solo una specifica indagine di topografia storica, estesa lungo un arco di tempo sufficientemente ampio (e quindi accertabile anche sul versante della continuità o discontinuità), possa garantire risultati plausibili. Mi sembra però opportuno segnalare i risultati di uno studio relativamente recente, che è rimasto senza ulteriori sviluppi a causa della scomparsa del suo autore. In sintesi, egli prende le mosse dalla proposta di identificare (almeno nel caso specifico) il termine suburbium con quello di pictagium, cioè di “quartiere”; in effetti, il suburbium Bassani in un caso è definito come pictagium, mentre quello di San Tommaso appare anche come parrochia. Su tali labili basi, si è ritenuto di poter identificare i sei suburbia menzionati nel Quaternus con altrettanti quartieri, distribuiti intorno alla platea magna, da riconoscere nell’attuale via Arpi. Quello di S. Tommaso sarebbe da collocare intorno all’omonima chiesa parrocchiale; quello di Maniaporci nel settore nord-est dell’abitato; immediatamente ad ovest seguirebbe il suburbium S. Andree, che coinciderebbe con il pictagium Cambii. Quindi a nord dell’asse viario di via Arpi e procedendo da sud-ovest verso nord-est sarebbero da collocare i pictagia S. Thomae , Cambii e Maniaporci. Il suburbium S. Petri sarebbe da identificare col pictagium Palatii (nella zona di sud-est, quella del palazzo federiciano), mentre il suburbium Bassani (collocabile nel settore sud-occidentale dell’abitato) coinciderebbe con il pictagium S. Angeli, comprendente anche la chiesa di S. Antonio. Il suburbium Templi infine, che si riferisce indubbiamente alla presenza dei Templari in città, sarebbe da identificare con il pictagium S. Mariae, cioè con il nucleo urbano sviluppatosi intorno alla chiesa matrice. Ovviamente spetta agli specialisti ed ai cultori di storia locale valutare appropriatamente questa interpretazione della struttura urbana di Foggia in età medievale, anche se non posso nascondere qualche perplessità riguardo ad alcune probabili forzature nella elaborazione dello schema che mi è sembrato comunque opportuno riferire. Il discorso resta quindi aperto.
A parte questi problemi interpretativi di fondo, non mancano in questa fonte così importante altri elementi caratterizzanti il quadro topografico coevo, sia urbano che rurale. Sono menzionati ad esempio i pozzi denominati, rispettivamente, di S. Angelo, di Landuino (lungo la via Risibovis ) e del Ponte del Re, sul fiume Celone, onde prende il nome anche una via; inoltre una fonte detta de Turri, lungo la via che conduceva a Siponto. Quest’ultimo toponimo sembra in qualche modo assimilabile alle espressioni in contrada de Turre e in Palude de Turre, riprese con maggiore precisione nella formulazione: in via Paludis de Turre et strata Syponti. Sono anche menzionate le località di S. Lorenzo; di Risiglione ; di S. Agapito, da identificare probabilmente con la zona dove sorse l’omonima domus federiciana; di Arpi, sempre in riferimento a seminativi e vigneti, con l’indicazione talvolta del fossato (iuxta fossatum Arpi) o di una palude (iuxta paludem Arpi). Sono invece citati i casali abbandonati di Pietrafitta (come pare debba intendersi), in direzione di Troia, e quello di S. Cipriano, lungo la via per Salsiburgo : l’uno e l’altro tenimentum, in cui erano compresi i suddetti due casali, erano in passato appartenuti al dominus Enrico di Pietrafitta ed al figlio Nicola. Potrebbe accostarsi al toponimo “Pietrafitta”, ma con molti dubbi, l’espressione in valle Petri de Sica; al contrario, si può collocare nella contrada “Palata” il toponimo “Separone”, che si spiega con qualche opera di canalizzazione del bacino del fiume Cervaro.
Notizie molto interessanti circa gli assetti territoriali, da esaminare ovviamente nel confronto incrociato di tutti i dati disponibili, che ci provengono dalla indicazione del reticolo stradale. Abbiamo così la via Baroli, menzionata anche come strata Baroli, cioè per Barletta; la via o strata Syponti, che non sembra troppo diversamente orientata rispetto a quella denominata appunto “via paludis de Turre” o, più semplicemente, via Turris; la via Sancti Laurentii, che conduceva appunto a S. Lorenzo in Carmignano; la via Troie; la via Casalis Novi, insediamento scomparso a sud-est di San Severo, non distante probabilmente dalla via Pontis Regis sul Celone, in quanto accomunata dalla vicinanza alle terre di S. Nicola; infine la via Arpi e quella di Salsiburgo, che prendevano evidentemente il nome dagli insediamenti versi i quali erano orientati, in un quadro di viabilità che rimescola insieme i tracciati rurali con quelli (per così dire) intercomunali e con gli assi portanti della struttura stradale del giustizierato di Capitanata. Da questo punto di vista, non c’è dubbio che siano da classificare al livello più circoscritto le vie denominate Aquecurrulis, cioè “dell’acqua corrente”; Molendinorum, cioè “dei mulini”; Casalicki; Paludiche; Ponticelli; Risibovis; Palata; e la stratella che conduceva ad Palearia e che finiva per convergere sulla strada per Barletta. Circa la via Castellionis, cioè di Castiglione, e quella detta semplicemente via mediana, si è ipotizzato un contesto topografico localizzabile lungo l’asse più diretto tra Foggia e Siponto.
I lunghi elenchi di nomi, riportati nel Quaternus in rapporto ai singoli beni presi in considerazione, offrono spunti interessanti per la conoscenza delle articolazioni interne della società foggiana coeva, ma forse ancor più dell’influenza (diretta e indiretta) esercitata dalla presenza (sia pure saltuaria) della corte imperiale e delle strutture stabili che comunque ciò doveva comportare. Ovviamente il quadro che se ne ricava è del tutto parziale, anche solo a voler considerare le testimonianze che affiorano dalla restante documentazione e che sono state menzionate nei paragrafi precedenti di questa relazione. Ad ogni modo, il Quaternus fornisce una percentuale molto elevata di indizi, in rapporto alle finalità stesse che ne determinarono la compilazione.
Con queste premesse, cominciamo la nostra sintetica rassegna dal gruppo sociale che può essere definito “esterno”, ma che poteva avere legami o esercitare influenze più o meno continue sul ceto dirigente propriamente locale. In tale ambito troviamo nomi illustri, di cui si fa cenno o perché beneficiari di qualche bene demaniale o perché colpiti da provvedimenti di confisca, come ad esempio Pier della Vigna, il magister Taddeo di Sessa, il magister Roffredo di San Germano (giudice della Magna Curia), il conte Riccardo di Caserta, il conte Gualtiero di Manoppello, il marchese Bertoldo di Hohenburg, Giovanni Moro, il notaio Pietro di Capua ; sono poi menzionati in maniera anonima l’arcivescovo di Capua, un magister iusticiarus ed un iusticie capitaneus.
Ad un livello sociale inferiore, ma ugualmente collegato alla presenza federiciana in Capitanata (ed a Foggia in particolare) c’è un altro gruppo, di cui facevano parte: Rufino, falconiere imperiale; Pietro Ispano, scudiero di una marescalla imperiale ( cioè di una masseria destinata all’allevamento degli equini ), un Planarco, che ne era un valletto; poi ancora gli scuterii Garcia, Oddone di Transburgo ed Hensius, tutti dipendenti delle marescalle imperiali ; inoltre un Bertoldo carroczarius; un Ferrante Ispano, non meglio qualificato; un magister Accardo frenarius; un magister Pellegrino subararius ; un Giovanni de Lacustra, arcerius della Curia; il comestabulus Matteo ; il magister Costanzo, “sellarius domini imperatoris”; il magisterManfredi, “aurifex domini imperatoris”; Nicola da Brindisi e suo padre Madius, entrambi magistri ingeniorum (cioè esperti di macchinari bellici e congegni di vario tipo). Resta invece del tutto incerta l’identificazione di un dominus Massaro: se si tratta di un nome di persona e non una qualifica, sarebbe da annoverare nella categoria dei chierici.
Al ceto dirigente cittadino, ma senza escludere per qualcuno possibili connessioni con gli ambienti di corte, sembrano afferire personaggi come i domini Nicola ed Enrico de Petrafictagià menzionati, un Palmerio de Corbo, un Marino de Camera, Roberto de Syon, Tommaso de Arsenda e il sire Carsidonio di Biccari; inoltre le dominae Andrisia, Domnana e Suriana. Sono inoltre menzionati il notaio Pietro da Montesantangelo, i giudici Roberto di Gualtiero, Angelo, Landolfo, Guerrerio e Simone; un Pietro del giudice Maraldo, un Roberto e un Maraldo del giudice Nicola, un Palmerio del giudice Landolfo.
Per quanto riguarda il clero, troviamo in primo luogo menzionato un Nicola arciprete, poi un Giovanni de Anselmo, un Palmerio, un Bonis, un Pellegrino ed un Guglielmo de Ypolito, ai quali può aggiungersi il prete Giacomo e suo figlio Milone. Sono menzionati anche i diaconi Elia e Giovanni, quest’ultimo per via di suo figlio Palmerio.
A parte coloro che sono genericamente menzionati come magistri, senza ulteriori precisazioni, è possibile identificare un certo numero di esercenti varie attività, la cui tipologia ne permetteva l’esercizio anche al di fuori della corte imperiale. Abbiamo tra costoro, ad esempio, un Giovanni mercantas ( evidente un mercante ), tre campsores (cioè cambiavalute), un magister Ruggero pictor, un magister Roberto cartularius (non meglio identificabile), una serie di fabbri (qualificati talvolta con l’appellativo di faber e talvolta di ferrarius ), inoltre dei macellai (buczerii), dei pastori (uno dei quali più precisamente indicato come vaccaro), un ciabattino (corbiserius), dei fornai (fornarii ), un sarto ( sutor ), un ortolano, un palmenterius ed un pectinarius (operanti rispettivamente nella manifattura dei tessuti e nella fabbricazione degli utensili).
Per quanto riguarda le attività agricole, troviamo frequentemente menzionati i terreni seminativi (di solito con il termine generico di terra, talvolta come pecia terre o tenimentum terrarum) e le vigne. Il termine pastinum, che da un punto di vista generale è riferito ad un impianto o dissodamento novello, riporta comunemente il nome del proprietario, ma non quello della coltivazione cui è destinato. Il termine vineale, che è utilizzato come unità di misura di superficie, si trova riferito indifferentemente, nel contesto della elencazione del Quaternus, a seminativi o anche a terreni almeno parzialmente olivetati (cum pedibus olivarum); l’olivetum vero e proprio appare invece menzionato una sola volta. Abbastanza frequente è la citazione degli orti, mentre si trova raramente quella di iardinum (nel nostro caso di proprietà dei Templari); si fa riferimento anche ad alcune masserie imperiali, tra cui quella di Versentino e quella confiscata a Pier della Vigna. Il terraggio annuo che si ricava da parte del fisco imperiale ammontava a circa novanta salme, di cui due terzi di frumento ed un terzo di orzo. Tra le unità di misura degli aridi era utilizzato anche il tomolo, mentre per i liquidi sono menzionati lo starium (pari a circa 10 litri) e la quartara, con delle specificità tradizionalmente a lungo applicate: il vino può trovarsi appunto misurato in quartare, staria e salme; l’olio solo in staria.In un numero non trascurabile di casi il reddito dei vigneti è misurato (com’è ovvio) in una determinata quantità di vino, ma anche di olio, il che farebbe pensare all’esistenza di coltivazioni promiscue. Da ultimo, non sono da dimenticare gli alberi di fichi primaticci, che di solito crescono negli spazi adiacenti la casa.
L’elencazione raccolta nel Quaternus ci permette anche di osservare il grado di mobilità della popolazione foggiana, nella quale si annoverano persone provenienti dal giustizierato di Capitanata (da Bovino, Troia, Biccari, Montesantangelo, Pulsano, Ariano, dai casali di Fabbrica e Banzia), dal resto della Puglia (precisamente da Monopoli, Santeramo e Noa), dalla Basilicata (da Gaudiano e Montecalvo), dalla Calabria e dalla Campania (da Cosenza, Capua, San Germano e Maddaloni), dalla Sicilia (da Palermo, in particolare), e da varie altre regioni italiane (con le città di Sulmona ed Ancona), sino alla Toscana e alla Lombardia. Non mancano inoltre persone qualificate come greche o “angliche” ed un paio identificate solo con soprannomi di tipo spregiativo.
8. Conclusioni
Ovviamente sarebbero possibili, sulla base delle notizie offerte dal Quaternus e da tutte le altre fonti citate, ulteriori considerazioni sulle vicende di Foggia e della sua popolazione all’epoca di Federico II; analisi ancora più approfondite potrebbero derivare, come già ho avuto modo di affermare all’inizio di questo ragguaglio, dall’utilizzazione di materiali documentari, cronachistici e archeologici già in parte disponibili, ma non ancora sufficientemente esaminati dal nostro attuale punto di vista. A parte queste riserve, che tuttavia permettono di ipotizzare sviluppi positivi nella ricerca, credo che l’immagine della città di Foggia nel periodo ora considerato permanga per molti versi abbastanza sfuggente, anzi sostanzialmente ambigua. In un contesto infatti contrassegnato da una crescita iniziale molto rapida, con le conseguenti tensioni nei confronti dell’egemonia ecclesiastica di Troia, la fase di passaggio dalla monarchia normanna a quella sveva provocò sicuramente dei contraccolpi negli equilibri sociali della città, i cui elementi più significativi sono tuttora da individuare con precisione.
A partire dal terzo decennio del secolo XIII, la presenza dell’imperatore e lo spostamento del baricentro politico del regno incidono senza dubbio negli assetti generali della Capitanata e, in particolare, in quelli di Foggia e del territorio circostante. A tal proposito, mi sembra necessario integrare da diversi punti di vista l’ottica tradizionale di Foggia “città imperiale”, per approfondire tutti gli aspetti (per così dire) collaterali, naturalmente senza pregiudizi di sorta. Se è infatti indubbio che il coinvolgimento, diretto o indiretto della città, nelle operazioni promosse da Federico II contribuì a convogliare impreviste valenze nel suo ruolo storico, è altrettanto vero (a mio parere) che le conseguenze, positive o negative che siano state, non possono essere considerate trascurabili. Ricomporre tutti i frammenti di un complesso mosaico, soprattutto quelli (direi) meno rutilanti, è forse il compito principale di una futura ricerca sul periodo in questione, certamente meritevole di più articolate valutazioni.
Qualcuno però alla fine di questo discorso potrebbe chiedere. Ma insomma, chi fu davvero questo Federico II, che tanta orma di sé impresse nell’epoca in cui visse e nei secoli successivi? Fu certamente una personalità di straordinario rilievo, poliedrica, insieme affascinante e sfuggente. Tutte le risposte formulate dagli storici risultano quindi sempre per qualche verso incomplete. Lasciamo quindi la parola a lui stesso. Cito lo stralcio di una lettera indirizzata, nel 1232, da Federico ai professori dell’Università di Bologna: «[…] per quel generale desiderio di sapere che, per natura, tutti gli uomini hanno, per quello speciale godimento che alcuni ne derivano, […] fin dalla nostra giovinezza abbiamo sempre cercato la conoscenza, abbiamo sempre amato la bellezza e ne abbiamo sempre, instancabilmente, respirato il profumo»: la conoscenza dunque e l’arte, la sintesi sublime di ciò che lo spirito umano può realizzare.
*Già professore ordinario di Storia medievale presso l’Università di Bari; attualmente Presidente della Società di Storia Patria per la Puglia.